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Gettare le reti a destra

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Giovanni 21, 1-11

1 Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: 2 si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. 3 Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla.
4 Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. 5 Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». 6 Allora disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci. 7 Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi la sopravveste, poiché era spogliato, e si gettò in mare. 8 Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri.
9 Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. 10 Disse loro Gesù: «Portate un po' del pesce che avete preso or ora». 11 Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si spezzò.

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In questo brano troviamo protagonista Pietro, insieme ad altri 6 discepoli.

Essi si trovano sul lago di Tiberiade, lago che Pietro, pescatore esperto, conosce benissimo.

Gesù è già risorto quando accade questo episodio; i discepoli quella notte si trovano sul lago a pescare perché HANNO FAME.

Qui la fame simboleggia il bisogno di FELICITA’: non è facile rimanere con la Fame, ovvero sentirsi insoddisfatti dei proprio bisogni di vita. Ed è difficile anche ammettere, spesso, che ci sentiamo insoddisfatti.

Per pescare il pescatore getta la sua rete. La rete simboleggia l’insieme dei nostri talenti.
Ognuno di noi ha i suoi talenti, le sue qualità, che gli permettono di pescare tutto ciò che ci può rendere felice.

Pietro è un buon pescatore, ma quella notte lui e i suoi compagni non pescano nulla: anche se siamo buoni pescatori, non è detto che le reti siano sempre piene.
Quindi nonostante le nostre qualità, qualunque esse siano (simpatia, bellezza, intelligenza, gentilezza etc. etc.), non è scontato che la pesca vada sempre a buon fine.

Quella notte i discepoli non si sfamano perché non pescano nulla.

Al mattino arriva un uomo in riva al lago, ma essi non lo riconoscono.
Questo "straniero" chiede loro, in modo anche ironico (vista la situazione evidente) «Figlioli, non avete nulla da mangiare?».
Pietro e compagni avrebbero potuto rispondere anche in malo modo allo straniero, chiedergli chi fosse e quale esperienza potesse avere lui della pesca, e su quel lago. Loro erano esperti, Pietro in particolare, ed avrebbero potuto benissimo dire allo straniero di farsi gli affari propri.

Invece i discepoli si comportano con umiltà.
Ammettono davanti a questo sconosciuto di non essere riusciti a pescare niente.

Gesù allora dice loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete».

Nessuno di loro si mette a discutere sul da farsi (avrebbero potuto replicare con tanti "MA"), invece eseguono ciò che gli è stato suggerito di fare.

"Gettare le reti dalla parte destra" ha un significato ben preciso, in quanto la tecnica di pesca era costituita da una serie di movimenti fatti con braccia e rete, che portava a gettare la rete stessa a sinistra della barca (in quanto si usa la destra per fare forza, essendo i mancini all’epoca praticamente inesistenti).

"Gettare le reti dalla parte destra" significava fare una cosa anomala, totalmente contraria alla logica e alla tecnica di pesca.

Significa quindi METTERSI IN DISCUSSIONE.

E il risultato sono 153 grossi pesci nella rete! Perché proprio 153?

Si ritiene fosse il numero delle specie di pesci allora conosciute; il numero 153 simboleggia la totalità di pesci catturati, la pienezza. Nulla rimase di non pescato.




La parte migliore

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Luca 10,38-42
38 Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. 39 Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; 40 Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41 Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, 42 ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».

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Marta è intenta nella preparazione della cena per Gesù e gli altri ospiti.
Maria, al contrario, si è seduta ai piedi di Gesù, ascoltando la sua parola.

Marta è arrabbiata perché vuol fare BELLA FIGURA, apparire agli occhi di Gesù. Marta vive l'angoscia di NON FALLIRE.

Per questo Marta può rispecchiare gran parte di noi, che quotidianamente viviamo cercando di conquistarci la stima degli altri, adoperandoci per non essere disprezzati.
Molti di noi assumono certi comportamenti, vivono in un certo modo, perché convinti che se non facciamo così NON saremo amati.

Questa necessità di avere la stima degli altri, di essere apprezzati, di 'fare una buona pesca', spesso ci porta a creare dentro di noi il bisogno di trovare qualcuno peggiore di noi.
E da qui nascono le troppo osservazioni sui comportamenti, sulla vita, sui modi di fare degli altri, così che si rischia di perdere il focus su quel che siamo, su come ci comportiamo noi stessi.
Il sentire il bisogno di "gettare le nostre reti" e di apparire sempre al meglio con gli altri per paura del rifiuto, fa sì che, come Marta, ci sentiamo continuamente sotto processo: OGNUNO DI NOI HA IL TIMORE DI NON ESSERE AMATO.

Il punto è che invece non è proibito mostrare le proprie debolezze, ammettere la propria difficoltà, non nascondere ciò che di te può non piacere.

Dio non si aspetta da noi ciò che si aspettano gli altri, o che crediamo essi si aspettino. Dio ci ama.

"Maria si é scelta la parte migliore che non le sarà tolta." Che significa?

Molte volte corriamo dietro ad un conquistarci la vita, con affanno, e ogni giorno ripartiamo da capo. Tutto ciò per "guadagnarci il cibo", per PESCARE!

Il guadagnarci il cibo non significa soltanto sostentarci, ma indica un nutrimento totale, di corpo, anima, spirito.

Siamo giorno per giorno indaffarati alla ricerca della felicità, dell’affetto e stima di chi ci sta intorno, a trovare realizzazione nella nostra famiglia, o nel lavoro, o tra le amicizie.

Tutto questo affanno dietro alla conquista della vita, ci porta a distogliere lo sguardo dalle cose più importanti.
Ogni giorno è un ricominciare, e quando facciamo un errore cosa accade? Crolla tutto e dobbiamo ripartire da capo.

Maria invece sta già "mangiando", scegliendo di ascoltare Gesù.

Il fiume che sgorga dal tempio

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Ezechiele 47,1-9.12

1 Mi condusse poi all'ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente. Quell'acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell'altare. 2 Mi condusse fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all'esterno fino alla porta esterna che guarda a oriente, e vidi che l'acqua scaturiva dal lato destro. 3 Quell'uomo avanzò verso oriente e con una cordicella in mano misurò mille cubiti, poi mi fece attraversare quell'acqua: mi giungeva alla caviglia. 4 Misurò altri mille cubiti, poi mi fece attraversare quell'acqua: mi giungeva al ginocchio. Misurò altri mille cubiti, poi mi fece attraversare l'acqua: mi giungeva ai fianchi. 5 Ne misurò altri mille: era un fiume che non potevo attraversare, perché le acque erano cresciute, erano acque navigabili, un fiume da non potersi passare a guado. 6 Allora egli mi disse: «Hai visto, figlio dell'uomo?».
Poi mi fece ritornare sulla sponda del fiume; 7 voltandomi, vidi che sulla sponda del fiume vi era un grandissima quantità di alberi da una parte e dall'altra. 8 Mi disse: «Queste acque escono di nuovo nella regione orientale, scendono nell'Araba ed entrano nel mare: sboccate in mare, ne risanano le acque. 9 Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché quelle acque dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà.
12 Lungo il fiume, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina».
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In questo brano si parla del Tempio di Gerusalemme, il quale rappresentando la dimora di Dio, viene identificato con Dio stesso.
Per cui il fiume che esce dal Tempio, esce da Dio, come Acqua Viva.

Si parla dell'acqua proprio perché ogni essere vivente per prima cosa necessita di acqua per vivere.
Il tema dell'acqua viva lo ritroviamo anche nel libro dei Salmi:

Salmi 1
1 Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti;
2 ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte.
3 Sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere.
4 Non così, non così gli empi: ma come pula che il vento disperde;
5 perciò non reggeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nell'assemblea dei giusti.
6 Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina.

Il Salmo 1 è conosciuto anche come quello delle DUE VIE: la via degli empi e la via del Signore.

La Via del Signore è fruttuosa, sempre verde e prospera ... attingendo la propria linfa vitale dalla legge del Signore come da un fiume

In contrasto con la vita dei giusti i quali si dilettano nella legge dell'Eterno e godono in ogni momento della gioia di Dio, gli empi sono: spossati, vinti; delusi e senza speranza ... si cibano di vanità sono come pula al vento; attendono che l'inesorabile giudizio di Dio purtroppo li raggiungerà.

Per noi occidentali la LEGGE spesso equivale a qualcosa di negativo, a una fastidiosa e noiosa imposizione; in oriente la LEGGE E' LA VIA della VITA, una luce che guida per vivere bene.

L'uomo di questo brano è quindi felice perché GUSTA la Via del Signore.

Torniamo al concetto di ACQUA VIVA, che nutre l'albero (l'uomo) le cui foglie non cadranno mai.
Questo passo delle scritture ci dice che l'uomo che attinge a quell'Acqua Viva riesce in tutto ciò che fa; è il Signore che gli dà ciò che serve per superare gli ostacoli, vincere le avversità, abbattere le barriere.

L'uomo che sceglie la Via del Signore E' SAPIENTE.

Essere sapienti (dal latino "sapere: aver o sentire sapore) richiama il gusto interiore. Vuol dire TROVARE SAPORE NELLA VITA.
Il sapere tante cose, il conoscere molte informazioni non ci riempie il cuore, ma assaporare le cose rende sapienti.

Spesso non ci accorgiamo del bene nemmeno nelle cose buone, oppure non lo apprezziamo a lungo.
Altre volte diamo valore a cose sbagliate e/o dannose, che con il passare del tempo non ci lasciano nulla. Il mondo stesso promette molto, ma alla fine delude.

Cristina Saponaro's insight:
Cosa occorre cambiare nella propria vita?

Dio parla

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1 Dio allora pronunciò tutte queste parole: 2 «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù (Es 20.1-2)

 

 

Letteralmente il brano dice: "Allora Dio parlò PARLANDO tutte queste parole."

 

In ebraico tale ripetizione enfatizza e segnala l'importanza di qualcosa.

La frase appare semplice, ma questa osservazione non è una sottigliezza: Dio sta per dare le 10 parole, e le parlò parlando.

 

Che significa? A parte la ripetizioone per 3 volte, che premette l'importanza di quando sta per essere detto, Dio PARLA, non comanda!

 

La parola presuppone un ascoltatore, una persona che E' DISPOSTA ad ascoltare. A mettersi in discussione.

La parola, e non ordine, è simbolo di alleanza, di amicizia.

 

Noi uomini abbiamo bisogno di comunicare; se è vero che per vivere le prime cose di cui abbiamo bisogno sono acqua e cibo, è scientificamente provato che una persona che non comunica, non vive.

 

E come l'uomo ha necessità di comunicare, la Parola del Signore é acqua che disseta e riempie ciò che ci manca:

 Sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere. (Salmi 1,3)

 

Siamo quindi in un contesto di ALLEANZA: Dio cerca alleati, non sudditi.

La parola TESTAMENTO, viene dal latino e significa ALLEANZA.

 

E’ il capitolo 20 dell’Esodo che presenta le 10 Parole (riportate anche nel Deuteronomio 5:6-21, e che non chiameremo comandamenti, ma parole...)

 

Il popolo di Israele è stato liberato dalla schiavitù in Egitto, e adesso conosce Dio.

 

Spulciando il Midrash, una raccolta di commenti rabbinici alla Bibbia che si propone di metterne in luce gli insegnamenti utilizzando la narrativa come genere letterale, si può leggere il seguente racconto: in una città si presenta un signore chiedendo agli abitanti di essere il loro sindaco, senza che nessuno lo conosca. Ovviamente nessuno gli dà fiducia, proprio perché non sanno chi è, costringendolo ad andarsene.

 

Lo stesso uomo ritorna dopo qualche tempo e si fa conoscere per le sue buone opere, costruisce edifici, strade, rinnova la città, e poi chiede agli abitanti di essere la loro guida: il popolo ha finalmente conosciuto chi egli è.

 

Allo stesso modo Dio ha liberato Israele, e adesso il popolo lo conosce: "Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto"

 

Questa è la Prima Parola per Israele: Dio ricorda al popolo chi Egli è, ossia Qualcuno del quale essi si fidano, che li ha liberati dalla schiavitù.

 

Siamo quindi in un contesto di fiducia, ed è questa la fede: un rapporto continuo di fiducia, e quindi un INCONTRO D’AMORE.

 

La parola stessa obbedire, che oggi ha assunto un valore quasi negativo, in quanto fa pensare a qualcuno che impartisce ordini, a qualcosa che va fatta per costrizione, in realtà ha origine dal latino OB+AUDIRE, che significa PRESTARE ASCOLTO; il prestare ascolto a qualcuno implica una certa fiducia nei suoi confronti e in ciò che egli dice.

 

Dio quindi cerca ALLEATI, non sudditi; PARLA, non ordina. 

La fede è un incontro d'Amore.

 

Abbiamo quindi appurato che il popolo di Israele, dopo la fuga dall'Egitto, aveva conosciuto Dio.

 

MA QUANTO OGNUNO DI NOI CONOSCE DIO?

 

Molti vivono un cristianesimo angosciante: si sentono appesantiti, fanno le cose con sforzo e fatica, e quasi invidiano chi si sente libero di fare ciò che vuole.

 

Questo però non è un rapporto di Amore, ma coercitivo: la persona si sente sopraffatta, obbligata a sottostare a certe regole, e a tipi di comportamento più per formalità o per apparenza che per reale conoscenza di Dio.

 

IN COLORO CHE CONOSCONO DIO SGORGA VERAMENTE LA GRATITUDINE. Per contro, meno lo si conosce e minore sarà la gratitudine.

 

 

 



L’incontro con Dio

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Dove si ricerca Dio?

 

Molti ricercano Dio nella bellezza della natura.

 

Un affascinante paesaggio, la sensazione di infinito del mare o di un panorama, l’imponenza della montagna, il cielo stellato di una notte: sono alcuni spettacoli della natura che ci danno l’idea dell’immensità, e in cui molte persone vedono la presenza di Dio.

 

Sicuramente Dio lo troviamo nella bellezza della creazione, ma... dove si trova Dio in una natura che è altrettanto bella quanto distruttiva?

 

Basti pensare a terremoti, tsunami, uragani, eruzioni vulcaniche: tutti eventi naturali che portano distruzione, morte sofferenza. Non possiamo quindi pensare a un Padre che ami vedere la sofferenza dei propri figli, mandando su di loro disgrazie quali catastrofi naturali.

 

Esse non possono essere un segno dell’ira di Dio contro un qualsiasi villaggio o nazione, come molte persone ritengono.

 

Un dio che si diverta a provocare tali disastri come punizione ai suoi figli è un padre che probabilmente nessuno vorrebbe. Pertanto Dio non può essere ricercato solo nella natura.

 

Dio lo ricerchiamo anche (e soprattutto) nelle nostre paure quotidiane, invocandolo con preghiere di richiesta che facciamo solo per avere in cambio qualcosa.

 

E questo è un altro modo che ci allontana dal vero Dio: l’avere con Lui un rapporto di convenienza.

 

Molte persone usano la preghiera nei momenti in cui essa diventa un dare per ricevere, magari senza rendersene neanche conto.

“Io prego, allora perché prego Dio mi deve ascoltare. Se non accade ciò che spero, Dio è ingiusto perché non ha contraccambiato la mia preghiera”.

 

Per fare qualche esempio: ci sono persone che pregano fervidamente per passare l’esame, per andare bene ad un’interrogazione, perché il lavoro vada in un certo modo; perché con quel/la ragazzo/a vada bene, perché avvenga o non avvenga quel determinato fatto sperato o temuto.

Altri pregano il loro santino protettore tutte le volte che montano in auto affinché li protegga dai possibili pericoli durante il viaggio (magari accanto al santino tengono il cornetto portafortuna!).

 

Come abbiamo già accennato, però, Dio non può ritrovarsi in questo modo di vivere la fede.

 

Innanzi tutto perché sarebbe solo un rapporto ipocrita con il Signore, e inoltre perché tutte le volte che le nostre aspettative non venissero soddisfatte, rimarremmo disillusi.

 

Dio poi viene cercato nei miracoli.

 

Ci sono persone che han trovato Dio perché ritengono di essere state soccorse, aiutate, salvate da Lui. E può essere vero.

Il punto è che talvolta ci si attacca a un pensiero non analizzandolo a fondo.

Facciamo l’esempio di una persona che ha trovato Dio perché scampata ad un incidente mortale.

Era in auto e proprio prima dell’impatto, questa persona ha chiesto “Dio, salvami!”. E si è salvata.

Da allora questa persona vive con fede, convinta che Dio l’abbia salvata perché ha chiesto il Suo aiuto.

 

A questo punto pensiamo ad un Dio che dall’alto dei cieli osserva il traffico quotidiano, intervenendo negli incidenti.

Ad ogni “Dio salvami” , Egli interviene e aiuta coloro che richiedono il Suo aiuto in quel momento.

E chi ,purtroppo, non chiede niente…muore. E’ una scena quasi comica.

 

Quindi Dio non può essere ritrovato SOLO nel miracolo.

 

Ci sono persone che vengono miracolate sì, ma allora quelle che non hanno questa grazia, quelle che continuano a vivere nella malattia, che hanno incidenti che le rendono inferme, tutte le persone che per un motivo o l’altro vivono una vita di malattia, o famiglie che restano senza padre, genitori a cui muoiono i figli? Le persone che nascono nei paesi del terzo mondo, o che subiscono guerre, violenze? Perché Dio fa delle preferenze?

 

Sempre più spesso si identifica la spiritualità con il "fare ciò che ci sentiamo", e molte persone oggi, probabilmente la gran parte, si dichiara credente di una religione "fai-da-te", un Dio che sento nel cuore.

 

La maggior parte di queste persone giustifica il suo non praticare la propria fede proprio perché non vuole obblighi, non vuol sentirsi costretta, VUOLE fare CIO' che SI SENTE.

 

E iniziamo allora a pensare ad un mondo in cui ognuno di noi vuole fare ciò che si sente di fare: immagina di andare a lavorare solo quando “ne hai voglia”, curarti da una malattia solo “se ti va”, attenerti agli impegni solo “quando te la senti”…

 

Spesso chi parla di fare ciò che si sente è il primo a vendersi la libertà, affascinato dai propri miraggi, dai propri idoli, per poi sentirsi violentato dalla proposta di Alleanza che Dio chiede liberamente di scegliere.

 

Fare ciò che ti senti porta conseguenze sulle persone che ci stanno intorno, soprattutto a coloro che vogliamo molto bene.

 

E così, anche con Dio, non possiamo fare come "ci sentiamo".

 

Perché spesso veniamo ingannati dal mondo, “ce la raccontiamo” ingannandoci, negando invece la dolce proposta di seguire La Parola, di fare un'Alleanza con quel Dio che ci ama e che vuole solo mostrarci la strada per la vita eterna, per la pienezza della vita.



Chi era Giobbe?

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Giobbe 1,1-13

 

1 C'era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male. 2 Gli erano nati sette figli e tre figlie; 3 possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e molto numerosa era la sua servitù. Quest'uomo era il più grande fra tutti i figli d'oriente.

4 Ora i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare anche le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. 5 Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: «Forse i miei figli hanno peccato e hanno offeso Dio nel loro cuore». Così faceva Giobbe ogni volta.

6 Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche satana andò in mezzo a loro. 7 Il Signore chiese a satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Da un giro sulla terra, che ho percorsa». 8 Il Signore disse a satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male». 9 Satana rispose al Signore e disse: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? 10 Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda di terra. 11 Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!». 12 Il Signore disse a satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stender la mano su di lui». Satana si allontanò dal Signore

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Giobbe è il protagonista di un libro che fa parte del vecchio testamento, scritto circa 2.500 anni fa, di cui non si conosce precisamente l'autore.

Alcuni lo attribuiscono a Mosè, ma sono stati anche indicati altri autori (Giobbe, Eliu, Salomone, Isaia, Ezechia e Baruch, lo scribano di Geremia).

 

"Giobbe è un libro difficile, ma importante, che mette in discussione la nostra fede, quella che noi crediamo fede. Molti dicono di credere in Dio, credono in un Dio che fa comodo a loro; altri dicono di non credere. Non credono in un Dio falso, ma in un Dio che è stato loro presentato come falso, smentito dalla vita... forse Dio è al loro fianco, perché il loro cuore batte da tempo per il vero Dio." (Don Giovanni Tacchi)

 

Ma chi era Giobbe?

Giobbe era un uomo giusto che viene privato in stretta sequenza dei beni, poi dei figli, poi della salute per opera di Satana, che dubitava della sua fede di fronte alla sofferenza,

 

All'inizio del libro ci viene presentato come un figlio della cultura orientale, e non un figlio d’Israele: questo per sottolineare come spesso si incontrano personaggi pieni di fede, ma al di fuori della nostra 'cerchia'.

 

Giobbe era un uomo retto, dotato di ammirevoli virtù, "integro, temeva Dio ed era alieno dal male."

 

Integro, cioè in armonia con se stesso, viveva i valori morali.

Retto: la sua relazione con gli altri aveva una dimensione di benevolenza.

Temeva Dio: in Giobbe predomina la paura più che il timore reverenziale, timoroso di offendere Dio, non avendo la giusta consapevolezza della sua persona.

 

Più in dettaglio, aveva timore di perdere Dio e la Sua benedizione.

 

In una occasione nella quale Satana era di fronte al Signore, Dio gli chiese se avesse preso in considerazione Giobbe, il suo servo fedele.

 

Satana rispose dicendo che il timore di Dio di Giobbe era dettato dal suo stare bene.

Satana disse che Giobbe avrebbe maledetto Dio se avesse perduto tutto ciò che possedeva.

 

In risposta a tali affermazioni, Dio mise nelle mani di Satana tutto ciò che Giobbe aveva, eccetto la sua vita.

 

Giobbe così perde i suo beni e poi i suoi figli a causa delle calamità.

MA NON perde la Fede.

 

Giobbe 1, 21

 

 “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”

 

Satana ritorna da Dio e di nuovo lo sfida, dicendo che la fede di Giobbe é rimasta perchè ancora non gli è venuta a mancare la cosa più importante: la SALUTE.

 

Quante volte sentiamo dire, o affermiamo noi stessi "basta che sia la salute!!" ?

 

Così Satana tenta Giobbe provandolo nella malattia.

Anche la moglie di Giobbe interviene contro il marito, esortandolo a maledire Dio e morire, almeno cesserebbe di soffrire e si toglierebbe la soddisfazione di farlo.

Ma Giobbe rimprovera a sua volta la moglie con questa frase:

 

Giobbe 1, 21

 

 “Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?"

 

Dopo ciò inizierà tutto il ciclo dei discorsi, molto lungo, che dal terzo capitolo arriverà al 42esimo, in cui verrà affrontata tra Giobbe e i suoi amici la ricerca della motivazione della disgrazia di Giobbe. 



La teoria della retribuzione

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Giobbe è provato dalla malattia, dopo essere stato privato di beni e prole, e si ritrova con il corpo dolorante e pieno di piaghe.

Ecco sopraggiungere tre amici che si recano a trovarlo; essi si siedono vicino a lui, e per una settimana, giorno e notte restano in silenzio, come se stessero celebrando un funerale... ma Giobbe non è ancora trapassato!

Questo silenzio ci dice non solo che nelle disgrazie non importa tanto parlare, quanto essere vicini a chi vogliamo bene; con il silenzio Giobbe ha modo di riflettere sul mistero di Dio e dell’uomo, fino ad arrivare a maledire il giorno della sua nascita, il giorno del suo concepimento, la  propria intera vita.

Qui Giobbe si chiede il PERCHE’ di tante cose: della sua nascita, della sua esistenza, della sua sofferenza.

Nel suo monologo egli afferma di preferire la morte alla sofferenza, una morte in cui non vede una conclusione della vita e della sofferenza che lo prova, ma un passaggio ad una vita migliore.

A questo punto prendono la parola i tre amici di Giobbe, i quali iniziano con le loro teorie ed i loro consigli.

Tutti e tre in sostanza diranno la medesima cosa, basata appunto sulla teoria della RETRIBUZIONE

 

Elifaz, il primo amico, sostiene che se stai soffrendo è perché in qualche modo hai peccato; non soffre chi è innocente, per cui, secondo l’amico Elifaz, Giobbe dovrebbe chiedere perdono a Dio, ipotizzando che Giobbe Lo avesse in qualche modo offeso.

Quindi l’uomo è intrinsecamente fragile, e tale fragilità gli impedisce di presentarsi davanti a Dio come una persona giusta.

Bildad ribadisce questa teoria parlando anche dei figli dell’amico che sono morti, con l’enunciazione previa dell’impossibilità di Dio di essere ingiusto: essi probabilmente, dice, sono stati puniti per qualche motivo, e suggerisce a Giobbe di pentirsi così che Dio lo avrebbe di nuovo ricompensato, nella logica della fedeltà/benedizione e infedeltà/maledizione.

“Ricordalo: quale innocente è mai ferito e quando mai furono distrutti gli uomini retti?”.

In entrambi i casi Giobbe risponde arrabbiandosi, e sfidando gli amici a dimostrargli dove ha peccato.

Il terzo, Zafar, rimproverà anch’egli l’amico, spiegandogli la sua disapprovazione verso il tentativo di Giobbe di CAPIRE: Dio è giustizia, e se sarai buono, ti darà di più in futuro di quanto ti sta togliendo.

 

Giobbe nuovamente si adira, e considera di poco aiuto le parole dei tre: per lui le loro argomentazioni non hanno valore.

Questo perché Giobbe è SICURO della sua integrità.

 

Successivamente entra in scena Elihu, che esprime il suo dissenso, sia verso i tre amici che verso Giobbe. Questi hanno smesso di rispondere a Giobbe, perché egli si considera ancora un giusto.

Agli amici rimprovera di non essere stati capaci di dare una risposta giusta ed hanno solo condannato Giobbe.

A Giobbe contesta il giustificare se stesso anziché Dio, affermando che Dio è più grande dell'uomo e non rende conto dei Suoi atti all'uomo: per Elihu lo scopo di Dio è disciplinare, non solo o per forza punitivo; che Dio può usare l'afflizione per attrarre i giusti.

Dice quindi a Giobbe di aver la pazienza.

Ma Giobbe non ha mai contestato la superiorità o la grandezza di Dio.

Egli contesta che i limiti dell’uomo debbano proprio per questo farlo tacere davanti a Dio.



La rabbia di Giobbe

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Giobbe 42, 5

 

 Io ti conoscevo per sentito dire,

ma ora i miei occhi ti vedono.

 

Giobbe è convinto che Dio sia grande, sia infinito, ma sia anche giusto; così pone la domanda a cui egli non trova risposte: PERCHE’?

 

Così Giobbe mostra di essere arrabbiato con Dio, dibattendosi contro il suo silenzio, tanto da voler fare un “riv” a Dio stesso. Riv è un termine ebraico che indica l’intentare una causa, il litigare, la contesa, in cui generalmente l’imputato è già colpevole prima dell’inizio del processo.

 

Nel capitolo 38 finalmente Dio replica, chiedendo: se l’uomo non osa levarsi contro delle bestie forti o feroci, perché osa farlo ipocritamente contro Dio?

In questo frangente Dio si conferma interlocutore dell’uomo, cioè un TU!

 

A questo punto Giobbe risponde di considerarsi un meschino, si pente di quanto detto, ammettendo che Dio può tutto, e nessun Suo disegno può essere impedito.

Giobbe dice di aver parlato senza capire di cosa parlasse, e che tutto ciò va ben oltre la sua umana comprensione.

 

Dio rimprovera anche i tre amici di Giobbe, in quanto hanno formulato ipotesi errate su Dio, che manda la sofferenza per punire. Giobbe era giusto nel non voler credere ciò.

 

Alla fine del libro Dio restituirà a Giobbe tutto, moltiplicandolo per due, mandandogli la Sua benedizione.

 

Ma perché nonostante la ribellione di Giobbe, Dio lo ricompensa?

 

Giobbe, chiedendo a Dio un confronto dimostra di avere ancora fiducia in Lui; così, se noi desideriamo realmente un rapporto autentico col Signore, se ci poniamo in modo sincero, non ipocrita, riceveremo risposta.

 

Dio si fa trovare proprio nell’assurdo, dove non lo cercheremmo mai, in quell’assurdità che fa parte della vita umana. Basta cercarlo.




Perché Dio permette le sofferenze?

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Molte persone non accettano la sofferenza, nè fisica, nè morale; spesso, per eliminare il loro dolore, cercano di eliminare il sintomo senza andarne a ricercare la causa.

Come voler curare la pelle butterata con creme e impacchi, quando magari il vero problema di una pelle simile risiede nel fegato in disordine: se non si cura quello, non avverrà mai una vera guarigione; non useremo cure, ma anestetizzanti. Il male viene attenuato, magari va anche via per un po'....ma finito l'effetto anestetizzante si ripresenta.

 

Spesso scambiamo ció che è il vero sintomo (la nostra sofferenza) con il male vero, e vorremmo non soffrire senza occuparci di ció che in realtà è alla radice di questo processo.

 

Ma cosa cerchiamo? Un anestetico, oppure una luce per vedere e guarire la causa del nostro male?

 

Giobbe ci porta a pensare agli “Assurdi” della nostra vita: qualcosa che ci è capitato nella vita (che ricordiamo o meno, perché impossibilitati a farlo) e che ci ha segnato, più o meno fortemente, sentendoci vittime.

 

Succede che talvolta ce la prendiamo con gli altri, mentre in realtà ce la dovremmo prendere col NOSTRO ‘ASSURDO’. La storia di Giobbe ci invita a non avere paura di queste assurdità della vita, di NON fare finta di niente. Guardiamo in faccia il nostro Assurdo.

 

Se pensiamo a tutte le sofferenze del mondo, dalle più piccole alle più grandi, ci sentiamo impotenti e ci chiediamo perché esiste tutto ciò. Sono assurdità.

 

E se ci pensiamo bene, Gesù stesso crocifisso è un assurdo: un uomo innocente condannato, torturato, ucciso ingiustamente.

 

Giobbe non vuole accettare l’idea degli amici sulla teoria della retribuzione (soffri perché hai peccato, o come si dice oggi “la ruota gira!”), convinto che Dio non abbandoni mai l’uomo.

 

In effetti la teoria della retribuzione non ci può soddisfare nella ricerca della risposta al perché della sofferenza, in quanto spesso sono gli innocenti a soffrire, e non è vero che chi commette ingiustizie o atti perfidi verrà poi per forza punito nel corso della sua vita.

 

L’assurdità, la sofferenza, il male, fanno purtroppo parte di questo mondo.

 

Chi non è in pace, chi è sempre arrabbiato con tutto e tutti, è perché non ha accettato gli assurdi della propria esistenza.

 

Come abbiamo già detto, Dio è entrato nell’assurdità della vita umana, e l’esempio più lampante di ciò è Gesù crocifisso.

 

Oggi sempre di più ci si scorda di questo, e molti cristiani dubitano della fede in Cristo innanzi alle sofferenze, o alla vista delle sofferenze altrui, perché non riescono a credere in un Dio che possa permettere tutto ciò.

 

Ci si pone con Dio in una relazione di comodo, la via più facile, e spesso quella che tutti imboccano: fino a che stiamo bene, finchè le cose vanno lisce, di Dio magari ci scordiamo anche dandolo per scontato.

Quando poi accade qualcosa di brutto ci ribelliamo ritenendo il Signore ingiusto, ritenendo che le disgrazie ci siano state mandate da Lui, attribuendogli le colpe dei nostri assurdi.

 

Ci ribelliamo alla teoria della retribuzione, perché ci riteniamo come Giobbe innocenti, non abbiamo fatto nulla di male ‘per meritare tutto ciò’, ma la dottrina della retribuzione va bene quando a soffrire sono gli altri.

 

Troppo spesso ci dimentichiamo di una cosa fondamentale, data per scontato da noi e dalla società odierna: l’uomo si sente onnipotente. Sente che può fare tutto da solo; sente che può trovare da solo la pienezza della vita, la felicità.

Allora quando le cose vanno bene, è solo merito nostro; quando le cose vanno male è colpa di Dio.

 

Questa è l’ipocrisia del modo comune di pensare.

 

E ci scordiamo che Dio ci ha lasciato il libero arbitrio, e che l’uomo fin da subito ha voluto allontanarsi da Lui perché in grado da solo di scegliere e decidere ciò che fosse giusto e ciò che fosse sbagliato.

 

Quindi spesso moltissime persone parlano di Dio senza conoscerLo, e gli attribuiscono le colpe di una sofferenza nel mondo che non può certo venire da un Dio che ci ama, che soffre, ha sofferto, per noi e con noi.



LA PRIMA PAROLA (Es 20,3-5)

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3 non avrai altri dèi di fronte a me. 4 Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. 5 Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano

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Analizziamo ora la Prima Parola (per gli ebrei e alcune branche del cristianesimo è già la seconda): la parola idolo proviene dal greco Eidolon (immagine), o Eidos (aspetto, figura). Eido in greco vuol dire 'vedo'; nell’idolo quindi riportiamo qualcosa a cui diamo l’immagine.

L’idolo rappresenta una realtà visibile, oppure un progetto a cui diamo tale importanza da porlo al posto di Dio, qualcosa che crediamo ci dia la gioia, la Pienezza della Vita.

“non ti farai idolo” –quindi- “ né immagine di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”.

Allora per Israele il mondo era diviso in tre parti: cielo, terra e acque. Qui si indica la totalità del creato: pertanto il significato di non farsi un’immagine non solo è riferita al concreto, cioè a creare immagini o statue da adorare, ma in particolare ad una immagine mentale che prenda per importanza il posto di Dio.

 

Questa parte è molto dibattuta in quanto molte correnti del cristianesimo la prendono esclusivamente in maniera letterale, obiettando al cattolicesimo perfino il simbolo del crocifisso, o le rappresentazioni di Gesù, Santi e di Maria. Analizzeremo anche questo.

Prima però proseguiamo analizzando la frase “non ti prostrerai innanzi ”, ovvero non ti sottometterai, né diverrai schiavo di tale immagine: non cercherai, quindi, nell’idolo (e in lui solo) la fonte della felicità. Questo perché è Dio che possiere la pienezza della vita, e solo Lui ce la può dare!

 

Noi non la possediamo, perché per vivere dobbiamo per forza ‘prendere la vita’ da qualcos’altro: aria, acqua, cibo, affetto, riconoscimento, obiettivi da raggiungere.

Tutti abbiamo dentro di noi la necessità di trovare la felicità, di raggiungere quella pienezza di vita che ricerchiamo senza tregua, anche senza rendercene conto. Non conoscendo Dio, non sapendo chi è Dio, Lo ricerchiamo in cose, o persone, o ambizioni che nulla hanno a che fare con Lui.

 

Ecco come nasce l’idolo, che corrisponde ad un’illusione,  perché l’obiettivo da raggiungere, una volta raggiunto ci farà forse stare bene per un po’ di tempo, ma successivamente, prima o dopo, ricominceremo a sentirci insoddisfatti.

 

C’è chi innalza ad idolo una propria ambizione, per esempio nel lavoro o nella carriera: raggiungere un determinato grado o una determinata posizione. Una volta raggiunto tale traguardo cosa accade?

Siamo contenti per un po’ di tempo, ma presto ricomincia l’insoddisfazione, che fa nascere una successiva ambizione, un nuovo idolo, che ci porta a desiderare di nuovo fortemente qualcosa in cui buttiamo tutti noi stessi.

 

Ciò accade anche con le persone: col fidanzato/a, con il marito o moglie, con i figli, con i genitori.

Andiamo a identificare in una persona ciò che può darci la felicità, ponendo in essa delle aspettative che non sempre potrà soddisfare: è umana come noi, ha difetti come noi, avrà i suoi momenti no come noi.

Carichiamo, così, la persone di un peso, a volte idealizzandola, ma aspettandoci da essa la soluzione alla nostra ricerca di pienezza.

 

C’è chi si butta sul denaro e alla fine entra in un circolo vizioso perché non basta mai, e ci si accorge che la ricchezza non rende la vita di un uomo “piena”. C’è chi mette avanti la propria immagine, la cultura, o semplicemente oggetti quali auto, casa, telefono, abiti etc.

 

Non è sbagliato avere degli interessi, focalizzarsi su degli affetti, porsi degli obiettivi; l’errore sta nel ricercare in quella cosa o persona la pienezza della vita. E’ sbagliato cercare la pienezza in quella e in quella sola cosa, andando a sacrificare altre parti essenziali della nostra vita.

 

L’idolo schiavizza: promette la vita ma in realtà te ne priva; a lui ti prostri perché ti sacrifichi, e metti da parte le tue opinioni, le tue idee, i tuoi cari, pur di seguirlo. E alla fine l’idolo delude sempre, e quindi quella vita che con esso ci pareva in discesa, facile, poi torna ad essere in salita.

 

Mettendo quindi al posto di Dio qualcosa che non è Dio, rimarremo delusi perché alla fine quell’illusione si rivelerà per ciò che è. Se ci si inganna su Dio, ci si inganna su tutto.



Il vitello d’oro

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Esodo 32, 1-4

 

1 Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: «Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto». 2 Aronne rispose loro: «Togliete i pendenti d'oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie e portateli a me». 3 Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. 4 Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto!».

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Nel brano della Bibbia conosciuto da tutti come “il vitello d’oro” (in realtà si tratta di un toro), si affronta proprio il tema dell’idolatria. 

Il popolo di Israele si trova nel deserto, durante la fuga dall’Egitto, senza meta e senza guida in quanto Mosè non è ancora tornato (si è ritirato sul monte Sinai per ricevere le tavole della legge) .

Poniamo l’attenzione sul deserto, un luogo arido, senza vita, in cui non c’è niente.

Nel deserto quindi regna l’insicurezza, l’incertezza.

Sentendosi Israele insicuro e incerto, chiede ad Aronne “un dio che cammini alla nostra testa (che proceda davanti a noi – in altre traduzioni)”, in quanto gli eserciti orientali facevano precedere gli schieramenti dalla statua o dall'emblema di una divinità. 

Il Toro d’oro simboleggia la totalità dell’idolo: l’oro indica la ricchezza, mentre il toro è un animale simbolo di forza fisica, fecondità e sessualità, quindi anche affettività.

Israele costruisce il suo idolo e lo plasma come desidera.

Tutte queste caratteristiche racchiudono i vari idoli che l’uomo tende a farsi. 

L’idolo può essere da noi controllato proprio perché siamo noi stessi a crearlo: la nostra esistenza è equiparabile all’attraversamento di un deserto, una situazione di incertezza¸ proprio perché niente nella nostra vita è certo.

Nella nostra vita conviviamo con l’insicurezza.

Questo è il motivo principale per cui andiamo a ricercare la felicità e la sicurezza negli idoli. 

La prima parola ci avverte, in sostanza, sul pericolo di sbagliare dio.

L’idolo ci illude, ci promette la vita ma alla lunga ce ne priva, perché per inseguire un idolo siamo capaci di tralasciare tutto ciò che è veramente importante.

L’idolo risucchia la vita, illude e poi delude.

Le delusioni possono fare crescere, perché ci fanno capire che la nostra vita non si riduce alla semplice vita “da criceto”.

Qual è la vita del criceto?

Il criceto se ne vive tranquillo nella sua gabbietta, mangia, dorme, se ha una compagna si accoppia, corre sulla sua ruota. Niente di più.

 

E’ vivere o sopravvivere?

 

L’incertezza che attacca anche i nostri idoli ci fa capire che siamo chiamati a QUALCOSA DI PIU’ della "vita del criceto".

Oggigiorno domina il pensiero Darwinista, ossia il concetto di base per cui chi non si adatta all’ambiente non sopravvive.

Questa è una mentalità che pone come obiettivo della vita umana la conservazione della specie, e quindi mostrare debolezza o insicurezza è un segno negativo; attraverso le conquiste fatte dalla scienza e dal progresso gli uomini si sentono onnipotenti, e non si pensa di essere chiamati a Qualcosa di più.

Il Dio vero ti aiuta ad essere veramente libero, a differenza dell’idolo che schiavizza.

L’idolo fa sì che ci prostriamo, ci sacrifichiamo per lui, mettendo da parte le nostre idee, opinioni, i nostri cari…

Tutto può divenire un idolo: basta che questo diventi un pensiero ossessivo, una fissazione, un qualcosa che, anche senza rendercene conto, si va a collocare prima di qualsiasi altro nella nostra vita.

Ci sono persone dedite al lavoro (tipo coloro che una volta entrati in pensione si sentono persi).

Altri si lanciano nei rapporti affettivi, idealizzando la persona o la relazione, e pretendendo che quella persona soddisfi la loro richiesta di felicità in tutto e per tutto (improponibile perché gli altri sono persone come noi, soggette ad errori, stress, stanchezza, debolezze).

C’è chi ha come idolo la propria immagine, sia estetica  che d’integrità morale; altri si orientano verso la cultura, i genitori o i figli,  fino agli oggetti (auto, squadra del cuore, abiti, soldi, etc.).

Gli idoli possono anche rappresentare degli obiettivi da raggiungere, una condizione al quale ambire; ma gli obiettivi, una volta raggiunti, ci faranno star bene solo nel breve.

Prima o poi inizieremo di nuovo a sentirci insoddisfatti anche della nuova condizione raggiunta, trovando vari aspetti negativi, o che non ci piacciono e quindi che non ci soddisfano.

Come già detto non è assolutamente errato avere desideri o aspirazioni, a patto di non convincersi che solo ed esclusivamente tramite tali realtà potremmo raggiungere la pienezza della vita.

 

Perché se lo facciamo, le poniamo implicitamente al posto di Dio.

 

Se lo facciamo, ci attacchiamo a queste cose o persone come un cordone ombelicale da cui attingere vita. 

Nel rapporto di coppia, per esempio, oggi più che mai l’amore viene confuso con la condizione: “sto con te perché sto bene” …. E QUANDO NON SI STA BENE che si fa? Questa è un’idea immatura e fragile dell’amore, tinta di egoismo.

 

Guardiamo in faccia all'idolo, e ripristiniamo l'ordine reale delle cose: Dio in cima, e non il nostro io!

 



Perché è così difficile comunicare?

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Genesi 11,1-9

 

1 Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. 2 Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. 3 Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. 4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». 5 Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. 6 Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. 7 Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro». 8 Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9 Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

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Babele viene da 'balal' che significa confondere: questa torre è il simbolo degli idoli che l'uomo si costruisce, del tutto ignaro di peggiorare soltanto la propria situazione.

Nel brano si parte da una situazione favorevole: tutta la terra aveva la stessa lingua e la stessa parola.

 

Gli uomini peró stanno emigrando dall'Oriente, allontanandosi dall'Eden, da Dio.

Pensiamo a riguardo alla parola 'disorientarsi', al modo di dire 'perdere l'orientamento': è come dire perdere il punto di riferimento.

 

Gli uomini, emigrando, si trasferiscono in pianura, e lì si stabiliscono: lì affondano le loro radici, cercando una situazione poco impegnativa, stabile, 'tranquilla' (perchè il disorientamento è comunque una situazione di sofferenza).

 

Dopo essersi stabiliti in pianura essi dicono: 'costruiamoci una torre, la cui cima tocchi il cielo'. Il cielo qui significa DIO.

Pertanto, se ad una prima lettura sembrerebbe quasi che questo popolo voglia fare una cosa buona per Dio, in realtà vuol costruire una torre per arrivare a Dio e prenderne il posto.

La torre simboleggia un sogno irragionevole: una torre sempre più alta, che vuol toccare il cielo, prima o poi crolla. E crolla su chi la costruisce.

 

Oltre a ció gli uomini dicono: "Facciamoci un nome!"

Il nome, per la cultura orientale in genere, è importantissimo: esso dà l'identità. Il nome dice CHI SEI veramente.

Gli uomini non sanno più chi sono, non hanno più uno scopo, vorrebbero crearsi una nuova identità.

Pensate al modo di dire 'farsi un nome' o 'diventare QUALCUNO': significano acquisire un ruolo nella società, per non essere un 'disperso'.

 

Farsi un idolo significa attribuire a qualcosa o qualcuno l'etichetta di Dio.

 

Spesso idealizziamo gli altri, e li amiamo solo quando essi soddisfano le nostre aspettative; cosí peró amiamo solo noi stessi.

 

E Dio come reagisce alla costruzione di questa torre?

 

Confonde le lingue; lo fa per riportare l'uomo sul cammino corretto verso Lui.

Noi facciamo già parte di un progetto, ABBIAMO GIÀ UN NOME. Siamo già qualcuno.

Dio confonde le lingue per non permettere all'uomo di realizzare un progetto deleterio, ossia di improntare la propria vita su un idolo.

Dio visita la colpa, ed i fatti accaduti sono una conseguenza; tutti coloro che vogliono costruire la torre hanno ciascuno il proprio modo di pensare, proprie idee, visioni, ideali, idoli. Ognuno vuol fare a modo suo, punto di partenza per le ambizioni e le lotte di potere.

Accade che non ci si capisce piú, non ci si comprende piú.

 

Torniamo cosí alla domanda iniziale: perchè non ci capiamo?

Perchè non ci riesce a metterci nei panni altrui?

 

Spesso tutto si riduce, in qualsiasi relazione, ad una LOTTA PER PRIMEGGIARE, perché  'le cose devono andare come dico io!'

E la conseguenza è la solitudine.

L'idolo promette di superare la solitudine, ma in fondo ti conduce ad una solitudine ancor piú profonda.

Così passa la voglia di vivere: questo è l’obiettivo dell'idolo.



QUALI TORRI STAI CERCANDO DI COSTRUIRE NELLA TUA VITA?

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La domanda può essere riformulata così: quali sono gli idoli che stai inseguendo, costruendo, per trovare la pienezza nella tua vita? Quali sono quegli idoli per i quali stai sacrificando affetti, rapporti, tempo prezioso, etc.?

 

Dio, tramite l'alleanza stabilita nelle 10 Parole, dà all'uomo la VIA per la felicità in ogni situazione della vita.

10 Parole! Significa che Dio PARLA, non dà comandi.

Dio vuole entrare in relazione con noi.

 

Esaminando a ritroso la Bibbia, troviamo Adamo ed Eva che decisero di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male... da non confondere con l'albero della vita, anch’esso presente nella zona centrale del giardino (Gen 2,9).

Il frutto peró cui Dio aveva detto di non mangiare era il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male.

 

Nel linguaggio biblico CONOSCERE vuol dire POSSEDERE.

Quindi l'uomo decidendo di mangiare quel frutto, decide di POSSERE il bene e il male, ovvero decide di stabilire da solo cosa sia bene e cosa sia male: non lo lascia più decidere a Dio.

La parola OBBEDIRE viene da latino OB+AUDIRE, che significa ascoltare dinanzi, ascoltare stando di fronte; prestare ascolto.

Prestare ascolto a qualcuno è un atto di fiducia.

La cultura occidentale è invece pervasa dal falso concetto di obbedienza intesa come passivo azzeramento della propria volontà, mentre l’atto di OBBEDIRE non ha alcuna attinenza, neppure alla lontana, col supino atteggiamento rinunciatario. Chi obbedisce non si abbassa all'umiliante ruolo dell'automa, non annulla la propria libertà, ma mette in moto i meccanismi più profondi dell'ascolto e del dialogo.

La nostra vita, anche se non ce ne rendiamo conto, è piena di atti di fiducia: dalle notizie che apprendiamo, ai dati, alle persone, alle informazioni di cui ci fidiamo; tante cose le prendiamo per vere non perchè le abbiamo verificate, ma perchè le abbiamo ascoltate.

La nostra vita è piena di atti di fiducia.

 

Abbiamo detto quindi che Dio ci parla, non impartisce ordini: Dio ci lascia liberi di ascoltarlo. Ma Dio non vuole che ci perdiamo, che entriamo in quei meccanismi, quei circoli viziosi, che ci fanno tornare a fare continuamente gli stessi errori, il pensare erroneamente 'la vita è una ruota che gira', luogo comune che ci mantiene ancorati alla stessa vita da criceto e agli stessi errori.

 

Dio ci dice: "Io sono il Signore tuo Dio": non lo abbiamo mai visto, ma lo abbiamo conosciuto per ciò che ha fatto.

 

Se non conosciamo Dio come possiamo fidarci di Lui?

 

"Non ti farai idolo" significa: Non sbagliare Dio!

Dio è COLUI che ha la pienezza della vita, perché ne è la fonte!



LA SECONDA PAROLA

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Esodo 20,7

 

Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.

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COSA SIGNIFICA NON PRONUNCIARE IL NOME DI DIO INVANO?

 

A causa della polisemia della lingua ebraica, il verbo PRONUNCIARE assume diversi significati come PORTARE, CARICARSI DI.

La seconda parola (terza per gli ebrei), ci dice: NON portare, non CARICARTI DEL NOME DI DIO INVANO.

 

Ciò ci porta ad una riflessione un po’ più approfondita rispetto al significato che tutti diamo in primis a questa Parola, fin da piccini al catechismo della Prima Comunione: non vuol dire solo non bestemmiare, ma ci indica qualcosa che va oltre.

 

Già la parola INVANO ci ricorda ‘vano, vanità’ e in ebraico tale vocabolo indica il vapore che esce dalla bocca quando è freddo; qualcosa di inconsistente, qualcosa che appare un attimo e poi svanisce, privo di significato.

 

Nella Bibbia, e nelle culture orientali in generale, il nome è qualcosa di molto importante, in quanto indica l’identità stessa della persona.

Il nome non è solo un appellativo, ma indica la Persona stessa.

Pronunciare il nome di qualcuno, pertanto, indica entrare in relazione con lui.

La seconda parola ci dice proprio questo: non avere una relazione vana con Dio, ma autentica; non relazionarsi a Lui in modo ipocrita, strumentale, orientato a difendere il proprio personale interesse, non costruire un rapporto con Dio immaturo ed egoista.

 

Ci sono relazioni reali, autentiche; altre invece sono false e ipocrite (da CRIPTO= nascondere): queste relazioni sono fatte da un DARE PER RICEVERE, costruite su un rapporto utilitaristico.

Purtroppo molto spesso gli uomini vivono quest’ultimo tipo di relazione con gli altri, pur non rendendosene conto.

Una relazione è autentica quando ci si mette in gioco, e si è disposti a farlo perché quella persona per noi è preziosa; basta pensare al detto “l’amico si riconosce nel momento del bisogno”. Accade invece che le relazioni siano ipocrite: sovente le persone stanno insieme ad altre perché possono servire, sono utili in qualche modo.

Anche con Dio si può non avere una relazione autentica, anzi: è proprio nel riuscire a capire se le nostre relazioni col prossimo sono autentiche che riscontriamo l’autenticità della nostra relazione con Dio.

 

Egli, con la Sua parola, ci dice quindi che non accetta relazioni di basso livello: paradossalmente sarebbe meglio non prendersi affatto carico del nome di Dio, perché in tal caso sarà solo il nostro Dio a soffrire della lontananza... mentre in un rapporto ipocrita, oltre a Dio c’è anche la nostra felicità che viene meno.



Il giovane ricco

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Marco 10,17-22

 

17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». 18 Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre».

20 Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21 Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». 22 Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.

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 “Vendi tutto quello che hai” è l’estrema sintesi dei primi 3 comandamenti: Gesù chiede all’uomo una relazione autentica con Dio, proprio perché vuole portarci a Lui.

Questo giovane ricco, come ci dice il racconto, si comportava in modo retto relativamente alle restanti Parole delle Tavole di Mosè: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre.

Può darsi che a questo giovane ricco non costasse eccessivamente rispettare i suddetti comandamenti: era ricco e non aveva necessità di rubare, rispettava i suoi genitori che gli avevano dato quelle ricchezze, non aveva necessità di mentire….

Quanto spesso ci comportiamo convinti di avere una relazione autentica con Dio, illudendoci di ciò?

 

Quante volte si prega per comodità, e solo nei momenti in cui abbiamo bisogno di chiedere qualcosa a Dio? Pregare per superare un esame, avere un lavoro, per ottenere l’attenzione di una persona che ci interessa, etc.: questo è un rapporto di comodo, di consumo. Un rapporto che utilizziamo per raggiungere i nostri obiettivi.

DIO SPESSO FA PARTE DEL NOSTRO QUADRO, MA IN UN LUOGO MARGINALE. Lo cerchiamo solo per convenienza.

Abbiamo questo bel dipinto che è la nostra vita, in cui al centro e ben in vista poniamo i nostri principali idoli (lavoro, immagine, fidanzato/a, figli,. Genitori, carriera…), intorno altre cose che ci interessano, e in un angolo da un parte, piccolo, mettiamo anche Dio.

Qualcuno diceva “Dio è il primo senza secondo”, ovvero “tratta Dio da Dio”.

In Mt 10 il giovane chiede la vita eterna¸”in pienezza, senza ben sapere cosa stesse chiedendo, in realtà. Quando Gesù gli dice di lasciare tutto quello che ha per seguirlo, egli non lo segue: quest’uomo ricava la sua pienezza dai suoi averi.

Tutti abbiamo delle piccole o grandi fissazioni, cose che se ci venissero a mancare, ci getterebbero nel panico.

Dio ci chiede proprio di abbandonare gli idoli che ci ossessionano e di andare verso di Lui! Ciò significa avere una relazione autentica con Dio.

Gli idoli, come abbiamo già analizzato, hanno dei limiti: possono essere persone, progetti, interessi, cose materiali, ideali.

Quante volte focalizziamo la nostra vita su pensieri come “Se avessi…” o “Se fossi…”: questo è RINNEGARE la propria vita, la propria storia: è rinnegare NOI STESSI!

Ciò che vale davvero non si può comprare né vendere.




La relazione autentica

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Nella vita di ogni giorno possiamo osservarci, e vedere come viviamo il nostro rapporto con gli altri e con Dio; questo rapporto può essere da noi vissuto in modo vano e superficiale, ma se cerchiamo una relazione autentica con Dio, Egli si fa trovare.

Avendo l’immagine della Croce, in molti pensano che avvicinarsi a Dio sia qualcosa di penitenziale, di pericoloso, di distruttivo; Dio, però, ci ama in modo totale.

Egli ci ha dato Tutto di sé, e non solo sulla croce, ma morirebbe di nuovo ogni giorno per noi.

L’uomo purtroppo non conosce veramente l’amore, e spesso questa società è abbagliata dal buonismo che dilaga, tipo gli ipocriti appelli alla pace.

Oggi della parola amore di fa un uso eccessivo che porta a distorcere ciò che è il vero Amore.

Gesù e Dio, prima che esistesse il mondo, si sono amati dall’eternità: un dono reciproco, senza fine, senza limiti.

Il Dio che ci ha rivelato Cristo è un Dio che ha donato e dona tutto se stesso.

Non è quel Dio che sta “sopra le nuvole” o “sul trono”. Non è quel Dio che ci guarda e che agisce a seconda di “come si alza la mattina”, che magari ti guarda per vedere se sei degno, o che ti manda qualche fulmine se non ti comporti bene.

Dio è AGAPE, che dal greco indica l’ AMORE COME DONO DI SE’.

Dio ti ama comunque, a prescindere di come sei fatto: con qualunque difetto, e per questo tu non hai motivo di disprezzarti.

 

Ci sono cristiani che vivono una vita di pseudo-fede, ma che donano poco di loro stessi: questo perché non si rendono conto di quanto Dio li ami. Non si fidano. Sapere quanto Dio ti ama, ti rende felice nonostante le avversità e le criticità della vita.

Spesso confondiamo l’onnipotenza con il poter comandare su tutto, e la frase che sovente si sente dire è: “…ma se Dio c’è, perché tutto questo male nel mondo?”

Dio, nella Sua onnipotenza, lascia che le cose avvengano anche in modo storto, come Lui non vorrebbe: ci lascia liberi, e quindi anche liberi di sbagliare.

L’Amore di Dio è folle, ma concreto: ha scelto la Croce dando tutto per noi, perché la felicità si trova nella totalità, non nel compromesso.

Con le Sue Parole Dio ti chiede un’alleanza con Lui.

Quando avrai assaporato, gustato, conosciuto Dio, il donarti a Lui verrà sempre più spontaneo: ti metterai nelle Sue mani (“sia fatta la Tua volontà...”).

Lascia a Dio il volante della tua vita.



Saul e Davide

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1 Samuele disse a Saul: «Il Signore ha inviato me per consacrarti re sopra Israele suo popolo. Ora ascolta la voce del Signore. 2 Così dice il Signore degli eserciti: Ho considerato ciò che ha fatto Amalek a Israele, ciò che gli ha fatto per via, quando usciva dall'Egitto. 3 Va' dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini». [...] 9 Ma Saul e il popolo risparmiarono Agag e il meglio del bestiame minuto e grosso, gli animali grassi e gli agnelli, cioè tutto il meglio, e non vollero sterminarli; invece votarono allo sterminio tutto il bestiame scadente e patito. 10 Allora fu rivolta a Samuele questa parola del Signore: 11 «Mi pento di aver costituito Saul re, perché si è allontanato da me e non ha messo in pratica la mia parola». (1Sam 15,1-3..9-11)

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I primi re di Israele Saul e Davide sono due figure paradigmatiche, due modi diversi di rispondere alla chiamata del Signore.

Saul e Davide ricevono la medesima unzione nello Spirito ma corrisponderanno a questa unzione in modo diverso:  non è la saggezza politica o l'abilità militare a condurci alla salvezza, ma l'obbedienza al Signore.

L’uomo obbediente (ob audire) si fida di Dio e aspetta i tempi di Dio a qualunque costo.

Mentre il disubbidiente è obbediente solo finché le cose – secondo il suo giudizio –  VANNO BENE; quando però lo stato delle cose cambia, il “dis-obbediente” prende le cose nelle proprie mani e non è più capace di fidarsi più di Dio.

 

Il Signore comanda a Saul, attraverso Samuele, di attaccare e distruggere gli Amaleciti, annientarli in toto, bestiame compreso.

Cosa rappresenta esattamente questo popolo? Rappresenta il male ... Quindi va sterminato fino in fondo! Nessun compromesso con il male!

Occorre recidere per esempio una relazione che compromette la mia famiglia, i rapporto con il mio coniuge. Estirpare dalla radice un vizio, una dipendenza, ecc...

 

Saul riceve il comando del Signore ma inizia ad usare la sua testa e fa i suoi calcoli: decide di impossessarsi del bestiame migliore, giustificandosi con Samuele e dicendo di averlo conservato per l'olocausto di offerta a Dio!

Saul cerca i compromessi e si accontenta della mediocrità, ma questo a Dio non piace; l’obbedienza a Dio non significa fare parzialmente la Sua volontà, solo fino al punto che vogliamo noi.

Saul stava cercando di accontentare gli uomini. Si preoccupò più per loro e per la loro opinione, piuttosto che per Dio per la Sua opinione. Successivamente, quando ammise il suo peccato, si preoccupò di perdere non la relazione con Dio ma il suo onore davanti al popolo.

 

Dio denuncia la mancanza di obbedienza e di ascolto (Ob-audire = ascoltare) di Saul, e sceglie Davide.

 

Samuele si fida di Dio, va da Jesse e gli chiede di conoscere i figli. Passa in rassegna i 7 figli ma Dio non gli parla, chiede se ci sono altri figli e Jesse gli dice di averne un altro ma è un fanciullino! Eppure Samuele ascolta la voce di Dio, si fida e consacra Davide in segreto! Nonostante sia un ragazzetto capace di pascolare le sue pecorelle e di cantare. È piccolino, fulvo di capelli, non ne ha una di dote che faccia pensare ad un uomo forte ... Dio ha criteri diversi dai nostri perché Dio non guarda ciò che guarda l'uomo. «L'uomo guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore».

 

Davide è il rovescio di Saul: le due figure sono intenzionalmente contrapposte e si illuminano a vicenda (come Robin Hood e Re Giovanni Senza Terra).

Davide non è presentato come l'uomo senza peccato (i suoi peccati - anzi - sono raccontati con dovizia di particolari), ma come l'uomo capace - nonostante tutto - di ascoltare la parola di Dio.

 

Mentre Davide sorge la stella di Saul tramonta; e nuovi nemici si affacciano all’orizzonte di Israele, i Filistei capitanati dal gigante Golia, il loro campione.

Ci sono nemici assatanati contro di noi che non ci danno pace: tutto il male che si scatena dentro di noi quando nel nostro cuore sorge un desiderio buono! Il gigante Golia percorrere ancora oggi la nostra vita, il nostro mondo: debiti, malattie, scelte importanti che continuano a farsi avanti privandoci nel sonno, privandoci della pace e sottraendoci la gioia.

Ma noi sappiamo che questi giganti non possono dominarci: se ci concentriamo sui giganti perderemo. Se ci concentriamo su Dio, i nostri giganti crolleranno!

 

Viene lanciata una sfida: Golia contro il campione del popolo di Israele. Ma Israele non propone nessuno. I Filistei si prendono gioco del Dio di Israele, Davide, che stava portando il cibo ai suoi fratelli schierati al fronte, sente e decide di sfidarlo.

 

Gli consegnano l'armatura di Saul ma lui la rifiuta e va contro il gigante armato solo con una fionda e 5 sassi, simbolo del Pentateuco, la Parola di Dio.

Saul dona a Davide tutto quello che era massimamente adeguato – secondo lui – per andare contro il filisteo. Ma Davide resta fedele a se stesso, rimane nella verità: coerente con la sua storia e le sue origini, egli affronta gli ostacoli della vita non confidando negli strumenti umani - simboleggiati da spade e corazze – schemi quali famiglia perfetta, lavoro perfetto, figli sani, e tutte le cose belle, progettini e programmini ad-hoc, ma fidandosi del Signore.

 

Saul comincia a odiare Davide, anche se quest’ultimo non diventa subito re! Davide ha più volte la possibilità di rifarsi nei confronti di colui che lo opprime e attenta alla sua vita; ma non si permette mai la minima offesa nei confronti di colui che Dio ha scelto, e semmai rimprovera e persino fa uccidere chi gli racconta, credendo sia cosa a lui gradita, di avere eliminato il re.

 

Dio mette nelle tue mani le persone che ci hanno fatto del male perché tu possa fare un atto di misericordia. Questa è la vera guerra! Quella della misericordia contro il desiderio di rivalsa!

 

Davide invece di uccidere Saul, gli chiede ragione di tanto odio mentre lui non gli vuole che bene. Saul, sconcertato e preso in contropiede, si converte.

È una bella dimostrazione di libertà interiore. Quel Dio che guarda al cuore e non all’apparenza ha dato a Davide un cuore grande, capace di accogliere il male senza restituirlo.



Questione di temperatura

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14 All'angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi: Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: 15 Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! 16 Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. 17 Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. 18 Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. 19 Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti. (Apo 3,14-19)

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Nell’Apocalisse viene espresso il desiderio di Dio di instaurare con l’uomo una relazione completa, un legame di cuore.

Così come fa Davide, che diventa re ed il Signore è con lui: vince molte guerre e si trova ad amministrare la giustizia.

 

Ma un giorno, mentre i suoi uomini combattevano in guerra, Davide si sveglia dopo mezzogiorno e passeggiando in terrazza si accorge di una donna che fa il bagno. Le piacque, chiese chi fosse e se la fece portare, ci va a letto e lei rimane incinta!

Uria, il marito, è in battaglia da mesi, e per giustificare questa gravidanza, viene richiamato in congedo... ma lui non si unisce a sua moglie per rispetto ai suoi amici in guerra, facendo saltare il piano di copertura.

E Davide come risolve il problema? Manda in prima linea Uria condannandolo a morte certa; Betsabea porta il lutto per il tempo necessario e poi sposa Davide.

 

Il Signore decide di intervenire mandando il suo profeta Natan che si presenta al cospetto di Davide raccontando dell'orribile peccato commesso da un uomo ricco che aveva rubato la piccola pecorella di un pover'uomo.

Davide, amministratore della giustizia nel regno, vuole conoscere il nome di quell’uomo per ucciderlo. Natan si volta di scatto. Fissa Davide negli occhi. Gli punta il dito contro. E soggiunge: - "Tu, Davide. Tu sei quell'uomo! Tu hai rubato Betsabea. Tu sei l'assassino egoista".

Davide é senza parole. Il terrore gli afferra il cuore mentre Natan gli urla contro, finché grida: "Ho peccato contro il Signore".

Davide si preoccupò non del suo trono ma della sua relazione con il Signore (Salmi 51). Ecco perché Davide fu perdonato quando cercò di ristabilire la sua relazione con il Signore, mentre Saul, che cercava di ristabilire il suo trono, non fu perdonato.

 

Davide cambia vita anche se restano le conseguenze del suo peccato. Fa memoria di tutte le volte che Dio gli ha offerto il suo favore, lo ha protetto e salvato.

 

Il cristiano è colui che vede le conseguenze del suo peccato ma continua a fidarsi di Dio e della Sua fedeltà e della Sua misericordia.

Nel libro della Rivelazione ci viene ribadita l’esigenza di Dio di instaurare una relazione completa con l’uomo, non certo contaminata dal compromesso, insomma NON una relazione tiepida.

 

Laodicea era in Turchia, una città di passaggio commerciale e molto ricca, e in pericolo di rigetto divino. Gesù Cristo è l’Amen perché in Lui c’è adempimento delle promesse di Dio.

La parola "vomitarti" viene dal Greco "emeo" e vuol dire proprio così "vomitare, tirare su e buttare fuori". Si fa così quando qualcosa è estranea al sistema, a Cristo. Il benessere materiale li ha accecati alla loro bancarotta spiritualità.

Cristo consiglia a loro di comprare tre cose da Lui:

- L’oro divino del carattere invece di essere miserabili, pietosi e poveri;

- Vesti bianche per coprire la loro nudità spirituale;

- Collirio per i loro occhi ciechi che possano vedere spiritualmente.

 

Apri gli occhi guarda la tua vita che per Dio è preziosa, getta le tue reti sulla sua Parola, scoprirai cose di te che nessuno ti ha mai detto!



Pietro

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Analizzando la II Parola (III per gli Ebrei), abbiamo iniziato a parlare di RELAZIONE AUTENTICA CON DIO.

 

In quest’ambito presentiamo la figura dell’apostolo Pietro, chiedendoci se egli avesse una relazione autentica con Gesù.

 

Sappiamo che Pietro è uno dei primi quattro apostoli. Proprio in Luca 5, leggiamo della pesca miracolosa e di come Pietro si fidi di Gesù buttando le reti, nonostante lo avesse fatto per tutta la notte (non prendendo niente), e di come poi, dopo la pesca, Pietro insieme ad Andrea, Giovanni e Giacomo, seguano Gesù lasciando tutto, per seguirlo e diventare “pescatori di uomini”.

 Nei vari episodi del vangelo vediamo come Pietro ponga una totale fiducia in Gesù; nonostante ciò sembra ancora non aver chiaro qualcosa.

 Un esempio lo troviamo in Matteo 14,22-33: qui Pietro vedendo il Maestro arrivare verso la sua barca camminando sull’acqua, non ci pensa due volte ad andargli incontro, e parte verso il suo Signore, camminando anch’egli sull’acqua; ad un certo punto però dubita, inizia a pensare umanamente a quello che sta facendo, si impaurisce e inizia ad affondare.

 Infatti Gesù ad un certo punto si rivolgerà a Pietro dicendogli “Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi” (Gv 13.36).

 Poco tempo dopo Pietro avrebbe rinnegato Gesù per tre volte (Lc 22,54-62).

 

Simon Pietro nel corso della sua vita fa esperienza di Cristo, lasciando tutto per seguirLo, restando con Lui anche nei momenti più duri, ponendo piena, totale fiducia in Gesù. Nella sua sincerità, e nonostante al momento dell’arresto voglia difenderLo con una spada (avrebbe dato la vita per Lui... sì, ma combattendo!), arriva comunque a rinnegarLo, sopraffatto dalla paura.

 

La vita di Pietro ci dice chiaramente che NON BASTA ESSERE CONVINTI.

 

Quando, nei quattro vangeli, Pietro rinnega Gesù, in tutti è citata la stessa affermazione: “Io non lo conosco”.

 Nella Bibbia questo verbo è significativo, perché indica tante cose, tra cui un profondo affetto, un immenso sentimento; indica Amore.

 Pietro è come se dicesse “Io non lo amo, non ho nulla a che vedere con Lui”.

 Dopo i rinnegamenti Pietro inizierà davvero una relazione autentica con il Signore: fino ad allora aveva tirato fuori più che altro il meglio di sé PER APPARIRE AL MEGLIO, lasciando da parte il suo lato “oscuro”.

 Ciò accade anche ad ognuno di noi: spesso si usano tante maschere (le 'reti migliori') per piacere agli altri, per nascondere la parte più povera, meno bella, di noi.

 In tal modo però non possiamo sperimentare il nostro io in pienezza, e quindi non potremo nemmeno avere una relazione autentica con Dio, e di conseguenza né con noi stessi, né con gli altri.

 

E’ nelle difficoltà, nelle criticità, che esce fuori l’ESSENZA di noi, proprio come quando si spreme un agrume.

 Così Pietro, in quel momento in cui rinnega Cristo, viene ‘spremuto’ e fa esperienza della sua povertà, ma fa anche esperienza che Gesù cristo LO AMA, lo accoglie, lo perdona proprio in quelle miserie e debolezze:

 «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E uscito, pianse amaramente» (Lc 22,61-62).

In questo sguardo di Gesù non si legge rabbia, rancore, delusione; si legge AMORE.

 

GESU’ CI AMA , e non perché ce lo meritiamo!

 

Il passaggio che fa Pietro, lo sperimentiamo un po’ tutti in un modo o nell’altro: quando CROLLA l’IDOLO del costruire noi stessi secondo le migliori qualità.

I nostri talenti possono divenire un tranello, un pensare “io mi salvo da solo”, rinnegando le proprie debolezze e carenze, in una società in cui –tra l’altro- mostrarsi deboli è addirittura infamante.

 

Nella RELAZIONE AUTENTICA CON DIO TI SENTI VERAMENTE AMATO IN TOTO, ANCHE NEI TUOI LATI PIU’ BUI. DIO TI AMA COMUNQUE.

 Scoprire come Pietro lo sguardo d’amore nella propria miseria provoca una rinascita.

 Nel mondo cristiano si narra che ogni volta, dopo il rinnegamento, che Pietro sentiva cantare il gallo, piangesse amaramente.

 

Dio quindi non accetta relazioni di basso profilo: non nel senso che dobbiamo costringerci, nel sentirci obbligati a farlo, ma NEL DONARE NOI STESSI CON GRATITUDINE nella consapevolezza del Suo Amore.

Perché la vita del cristiano non è un fare, una questione di ritualità, ma ESSERE.

Dio ci lascia nella nostra libertà, pagando anche le conseguenze delle nostre azioni, ma è così che si cresce.

E allora facciamo nostra la preghiera dei monaci ortodossi: “ Fa Signore che io possa amarti quanto ho amato il mio peccato”



LA TERZA PAROLA

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Esodo 20,8-10

 

8 Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: 9 sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; 10 ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.

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La Terza Parola dice: RICORDATI DEL GIORNO DEL RIPOSO PER SANTIFICARLO. Cosa significa di preciso?

 

Innanzi tutto precisiamo che SABATO, ossia SABBATH in ebraico, significa RIPOSO oltre che corrispondere al Sabato stesso.

 In molti intendiamo il riposo come svago, divertimento (da divergere in latino, fare qualcos'altro): pensiamo che le attività che ci fanno piacere siano RIASSUNTE nei giorni di festa.

 Come contraltare, abbiamo che i giorni feriali sono visti come un ‘fardello’, e nei giorni festivi abbiamo la necessità fisiologica di compensare i giorni ‘fardello’ (talvolta anche esagerando, strafacendo), al fine di riconquistarci qualcosa che durante la settimana abbiamo perso. Tutto ciò fa riflettere, perché questo comportamento indica la volontà di fuggire da qualcosa che non ci piace; la classica gita fuori porta è l’emblema della fuga dall’ambiente abituale. Il nostro tempo non può essere vissuto a compartimenti stagni.

 

Fuggire dai giorno feriali, magari lamentandoci di continuo dal lunedì al venerdì, per sentirsi bene solo nel week end, è sintomo di un comportamento che ci fa scappare da una parte importante della nostra storia e vita.

Mentre si lavora si pensa alle pianificazione delle vacanze future, o ai rimpianti di quelle appena trascorse, senza vivere appieno il presente.

 Sovente accade che carichiamo i giorni di festa di aspettative che questi giorni non possono totalmente soddisfare. Questo bisogno sfrenato di doversi svagare, divertire, rilassare, ci fa vivere con ansia e con frustrazione quei momenti di disturbo, anche estemporaneo (es. una coda per incidente sulla strada per il mare, un’imprevista visita di amici o parenti, un vicino invadente o rumoroso etc..) che intralciano la nostra pianificazione per il riposo.

Spesso si sente dire che bisogna divertirsi. Ma alla fine cosa significa? E SE NON TI DIVERTI, CHE SUCCEDE??

 

Il vero riposo è la pace interiore, che nella Bibbia viene chiamata SHALOM. Non è tempo di evasione, come lo intendiamo noi, che conduce talvolta alle estreme conseguenze dello sballo ad ogni costo. Invece il riposo è il tempo ove è doveroso fermarsi, è un’occasione d’incontro, di relazione.

 

Chi scappa e fugge dai giorni “noiosi”, dai giorni di lavoro, di studio, di impegni, dalle responsabilità, dicendo male di essi, maledicendoli, fugge da SE STESSO.

 



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