Quantcast
Channel: Le 10 Parole | Scoop.it
Viewing all 92 articles
Browse latest View live

Benedire la storia

$
0
0

Esodo 20,11

 

11 Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.

---------------------------------------------------------------------- 

Dio ha creato tutto in sei giorni e il settimo si è riposato: Dio ha creato l’uomo affinché esso riposi, ovvero arrivi alla PACE INTERIORE (Shalom).

 Il settimo giorno viene CONSACRATO da Dio. Come arriva Dio a questo riposo, dopo aver compiuto la creazione in sei giorni? EGLI BENEDICE TUTTO CIO’ CHE HA FATTO (Al termine di ogni giorno, nella Genesi 1 c’è sempre: E Dio vide che era cosa buona)

 

BENEDIRE, dal latino ‘bene-dicere’, vuole dire proprio “DIRE BENE”. Benedire la propria storia. E per BENEDIRE, è necessario fermarsi a CONTEMPLARE il nostro vissuto, per poi CONSACRARE il RIPOSO.

E la massima consacrazione per un cristiano è proprio l’Eucarestia, benedizione e ringraziamento al Signore.

Tutti, chi più, chi meno, abbiamo a che fare con i nostri assurdi, con le sofferenze della vita che non hanno spiegazione razionale, ma che ci sono state inferte in modo più o meno consapevole dalle persone che ci circondano, dalla società, dal destino.

Bene-dire la propria storia significa non maledire, non dire male della propria vita, nonostante essa sia stata straziata da qualcosa o da qualcuno, anche in modo orribile.

 

In tutta la nostra vita c’è la presenza dell’amore di Dio, anche nei momenti peggiori. Nessuno mette in dubbio la fatica di starci nelle situazioni pesanti, ma se ci affidiamo a Dio, Egli ci condurrà a destinazione.

Persino Gesù, prima di morire, sulla croce dice “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Fidarsi di Dio significa entrare con Lui in una relazione autentica.

Se prendiamo un’ostrica, osserviamo che questa è brutta, nera, pure male odorante; ma l’ostrica dentro contiene una bellissima perla. Così, per quanto brutta possa sembrarci la nostra vita, o per quanto inguaribili possano sembrarci certe ferite, noi siamo come quell’ostrica :quella perla ce l’ha data Dio.

Dio ci dà sempre il Suo Amore. La Sua presenza.

Riposare, quindi, significa: TROVA LA PERLA IN TUTTE LE TUE ESPERIENZE, ossia guarda la tua storia con sguardo differente, benedicendo anche gli errori commessi perché ti hanno aperto gli occhi, donandoti nuova sapienza.

 

Come Dio ha creato l’universo e alla fine ha contemplato e benedetto ciò che ha fatto, e ha vissuto il riposo – senza ‘conti in sospeso’-, così l’uomo, creato a Sua immagine, può riuscire a farlo. Basta guardare, vedere il bene, dire il bene della propria vita, ed aprirsi a una diversa prospettiva che ci permette di entrare nel riposo.

 

NON E’ FACILE BENEDIRE LA PROPRIA STORIA E I PROPRI DOLORI.

 

Ma se cercassimo la perla all’interno dell’ostrica della bruttezza dei nostri assurdi, troveremmo qualcosa di prezioso, e le nostre ferite potranno essere accolte.

Purtroppo oggi l’uomo è molto più propenso a fare la vittima perché ciò lo fa sentire al centro dell’attenzione, lo fa stare paradossalmente meglio, ed è molto più propenso a maledire, a rimuginare ciò che trova di negativo nella sua esistenza.

Senza riconciliazione con la nostra storia, ci sarà negata la possibilità di godere del riposo.




Libertà interiore

$
0
0

Deuteronomio 5, 15

 

Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno del riposo.

--------------------------------------------------------------

L’uomo non ama le imposizioni o le costrizioni per sua natura, perché le considera una privazione della propria libertà mascherata talvolta dal senso del dovere, e tende quindi a fare la vittima, maledicendo la propria vita: c’è chi si sfoga con gli altri, raccontando loro i propri disappunti, inconvenienti, dolori, disgrazie, grane sul lavoro o con i parenti, etc.; c’è chi usa il vittimismo in modo più velato, ma lo fa per giustificare se stesso, per non prendere posizioni, per trovare qualche scappatoia all’immobilismo che lo attanaglia. Oppure si compiange perché ciò lo pone al centro dell’attenzione.

Ma la parola ci dice che siamo stati liberati dalla schiavitù: e giacché sei libero, cerca di vivere il giorno del riposo come UOMO LIBERO, e non come schiavo dei tuoi idoli.

Oggi la nostra società ci illude con l’idea del “fai quello che vuoi” o “fai quello che ti senti”, ma alla fine non ci fa sentire veramente liberi: non ci dà la SHALOM, LA PACE INTERIORE.

Il riposo lo otteniamo veramente quando riusciamo a fermarci, contemplando il nostro vissuto e benedicendolo, buono o cattivo che sia stato.

 

Percepiamo la presenza di ostacoli che non ci fanno sentire liberi, e attribuiamo questi blocchi a fattori esterni (es. lavoro, famiglia, commissioni, etc.) mentre in realtà essi vengono da dentro di noi.

Un classico esempio è la scusa del “NON HO TEMPO” ripetuta ormai allo sfinimento: non ci manca il tempo, ci manca la volontà di agire, perché diamo priorità a cose più futili, o semplicemente lo diciamo per mascherare un “NO”.

 Ci creiamo degli impedimenti che ci imprigionano, pur non essendo fisicamente in una condizione di schiavitù.

 

C’è un altro tipo di schiavitù, ed è quella del peccato.

Oggi è “fuori moda” parlare di peccato, ma per la Chiesa di Cristo peccato e schiavitù sono la stessa cosa. Cattivo viene dal latino “captivus” che vuol dire appunto prigioniero. Essere schiavi dei propri peccati.

 

Come l’avarizia. Nel Siracide 5,9 leggiamo: “L'avaro non sarà mai sazio del suo denaro”.

 

Ma l’avarizia non esiste solo nelle cose concrete: un avaro di cose molto spesso lo è prima di tutto negli affetti, e sarà quindi una persona che darà molto poco di sè agli altri, pensando a ricavare nei suoi rapporti interpersonali qualcosa di proficuo; sarà sempre ossessionata dal guadagno, concreto o psicologico, riversandosi su un’affettività utilitaristica.

L’avaro sarà avaro anche nel giorno del riposo, pechè la sua avidità non gli permetterà mai di vivere serenamente anche i momenti considerati di riposo, o di festa.

 

Stesso discorso per altri peccati, quali la lussuria o l’ira: inducono uno stato di schiavitù permanente, definibile come l’incapacità di amare, e dal quale non ci si libera nemmeno con la forza della volontà. In Romani 7,19 l’apostolo Paolo ci dice: “Infatti io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio”.

L’iroso vive con frustrazione ogni momento della propria vita, riposo compreso, in quanto troverà sempre qualcosa che lo irrita (es. traffico, imprevisti, una frase per lui errata, un rumore, etc..).

Ci adiriamo per motivi superficiali, non rendendoci conto che la nostra rabbia viene probabilmente da qualche ingiustizia (o qualcosa che viviamo o abbiamo vissuto come tale) che in qualche modo abbiamo ricevuto in passato, e di cui magari non siamo nemmeno consapevoli. Come già accennato MALE-diciamo la nostra storia.

 

Fatto sta che l'ira ci rende prigionieri, e ci trasforma in qualcosa che non siamo o non vogliamo essere, e che sicuramente non ci farà mai vivere bene il nostro giorno del Riposo.

 

Discorso analogo per il superbo, che pensa orgogliosamente che tutto quello che ha o che è, non viene da Dio, da nessun altro, se non da se stesso, dalle sue capacità.

Il superbo vive quindi in una costante competizione con coloro che ritiene superiori a sé, ed è allergico ad ogni discorso di cui non sia lui l'oggetto: la relazione con l'altro rimane sempre improntata al giudizio e al disprezzo.

Una tal persona è perennemente sintonizzata sull’esaltazione di sé; non solo non riesce ad amare, ma sarà sempre attanagliata dal dover dimostrare in ogni luogo e situazione di essere migliore di altri, di esser all’altezza, di non aver bisogno d’aiuto, tanto da non avere mai quella Pace di cui stiamo parlando; quella pace che dà serenità, che dà il vero riposo.

 

Bisogna chiedere di esser liberati al solo che può farlo, il nostro Salvatore Gesù Cristo, morto in croce per noi; Lui che ha vinto la morte risorgendo il terzo giorno, e liberandoci dalla prigionia del peccato.

 



Il figliol prodigo

$
0
0

Luca 15,11-32

 

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. 13 Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. 17 Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19 non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20 Partì e si incamminò verso suo padre.

Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. 23 Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.

25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. 27 Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. 28 Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. 29 Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. 31 Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

---------------------------------------------------------------

Entrambi i figli protagonisti della parabola hanno una pessima idea di Dio, pur avendo due concezioni differenti della vita. Il figlio minore pensa che Dio sia un concorrente, un avversario che ne impedisce la realizzazione.

Dio è un censore, uno che non dà valore aggiunto. Gli chiede l’eredità, quello che gli spetta. Chiederla significa augurare la morte. Di contro c’è un Padre che lascia andare il figlio anche se sa che si farà del male.

Il figlio va via di casa dopo essersi organizzato, e conosce la vita. Insegue il suo sogno di libertà, assecondando le proprie pretese; spesso si costruiscono relazioni effimere con l’obiettivo di trarne un beneficio che, se tarda ad arrivare, conduce poi al taglio netto.

Infatti conquista molti nuovi amici, sperpera tutto il patrimonio vivendo in modo dissoluto: sta scimmiottando l’esodo, andando lontano dalla quotidianità, convinto che la vita vera sia altrove.

Non fa altro che gettare le proprie reti, facendo fatica e sprecando energie, lontano dal Padre, lontano dalla grazia di Colui che ci rigenera.

Ma quando finiscono i soldi gli amici se ne vanno, ovvio. È tutta qui la vita? In pochi mesi ha già conosciuto tutto, bruciato tutto?

Si ritrova a pascolare i porci. I porci: l’animale impuro per eccellenza. La sua condizione di schiavitù si estende addirittura sul potere discrezionale nella scelta delle bestie da accudire: l’apparente libertà conduce alla reale schiavitù. E patisce la fame. E la solitudine.

E allora rientra in se stesso e decide di tornare: ha percorso una spirale che lo ha condotto fuori da se stesso, oltre che lontano dal Padre, e non si riconosce più. Citando la Parola: “Mi leverò”, ossia risorgerò tornando al Padre, rammentandosi dell’affetto ricevuto in passato.

In sintesi, vuole tornare alla situazione di partenza, che in passato reputava un inferno, ed ora un paradiso.

Non si ritiene degno di esser chiamato figlio, perché ha perso tutte le pretese, ed un rapporto senza pretese è un rapporto di servizio, totalmente libero; vuole esser trattato come un garzone, decide anche questo, perché siamo i peggiori giudici di noi stessi, senza attendere l’opinione del Padre che, dal canto suo, neanche gli consente di terminare la frase.

Perché il Padre è lì che scruta l’orizzonte ogni giorno, e non rinfaccia né chiede ragione dei soldi spesi, non accusa, abbraccia, restituisce dignità, fa festa commosso.

Un Padre che ama in maniera esagerata un figlio che gli augurava la morte (“dammi l’eredità!”), e gli si getta al collo, che non è altro che il giogo di Cristo... “Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,30) e si riferisce alle braccia del Padre che ti abbraccia.

E chiede ai servi di rivestirlo, di mettergli i calzari per farlo camminare di nuovo, perché era morto, era schiavo ed ora è risorto, vivo, libero nell’abbraccio del Padre; il figlio si sentiva libero seguendo i propri idoli, ma non lo era... e la realtà lo ha risvegliato dal torpore, facendolo rientrare in sé.

Il fratello maggiore, dal canto suo, si accontenta di una vita di basso profilo e di una relazione ipocrita col Padre, fatta di doveri senza soddisfazione nel compierli, attento più a non commettere errori che a costruire una vera relazione filiale col Padre.

La libertà non è autonomia, ma è un rapporto filiale strettamente connesso al concetto di soddisfazione, ed è per questo che si deve desiderare di più senza accontentarsi, puntare a grandi cose. Perché è la dipendenza da Dio la vera libertà.

Il fratello maggiore, in verità, non la pensa molto diversamente dal fratello minore: si sente in prigione ma non ha il coraggio di prendere ed andare; anche lui, come suo fratello, non può godersi il riposo senza la convizione che la propria storia non sia maledizione.  

E il Padre ancora va incontro anche all’altro figlio, perché il perdono è il motivo per cui Dio ha fatto il mondo; infatti Sant’Ambrogio ci dice che Dio ha creato l’uomo e solo a quel punto si è riposato, avendo un essere a cui rimettere i peccati.

Scopri la tua ferita al medico, urlalo per essere liberato, perché Dio aspetta la tua libertà pur conoscendo già i tuoi mali.

E comincerai a benedire la tua storia, a goderti il riposo, a raggiungere la SHALOM, LA PACE INTERIORE.



Ascoltate OGGI la Sua voce

$
0
0

Qoèlet 3, 1-8

 

1 Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.

2 C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.  3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. 4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. 5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. 6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. 7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. 8 Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

------------------------------------------------------------------------

Condizioni necessarie per godersi il tempo del riposo celebrando la Pasqua facendone memoria nella Santa Messa domenicale sono di bandire lo stato di schiavitù asservita al peccato, e di censurare ogni forma di maledizione del vissuto, benedicendo la propria storia.

Ma non sono strettamente sufficienti, in quanto manca un ultimo fondamentale aspetto da considerare: il fattore tempo.

Le prime tre Parole ci chiamano a rispondere alle domande in merito alla relazione con la sfera divina; in ordine di priorità, ci viene chiesto CHI è il tuo Dio, scambiato spesso con un idolo terreno che ci soffoca, COME ci relazioniamo con Lui, in pienezza o secondo i nostri canoni.

La terza Parola ci domanda QUANDO instauriamo questa relazione con Dio.

Infatti crediamo molto spesso di esser padroni del nostro tempo: soprattutto in gioventù ci si crede quasi “immortali”, pensando sempre di aver tempo a disposizione per fare tutto, rimandando le decisioni e consumando il tempo a disposizione nell’oggi senza agire. L’altro atteggiamento opposto, è quello di affrettarsi nel fare le cose precorrendo i tempi giusti (es. rapporti pre-matrimoniali), vivendo le esperienze fuori dal proprio tempo.

Anche Gesù, nella sua vita terrena, ha atteso trent’anni prima di uscire allo scoperto, assoggettato alla volontà del Padre e sottomesso a Maria e Giuseppe.

Non siamo in grado di entrare nel nostro tempo, che non è infinito e, soprattutto, è unico; siamo spesso proiettati con la testa verso il domani dimenticandoci di vivere l’oggi in pienezza, andando fuori tempo e rovinando l’armonia della nostra vita, analogamente ad uno strumento di un’orchestra che stoni durante l’esecuzione di una sinfonia.

Perché per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il Cielo.

Durante l’esodo verso la terra promessa, il popolo d’Israele viene sfamato da Dio grazie alla manna, un cibo piovuto dal cielo da consumarsi in giornata (quello del venerdì durava tre giorni per consentire il riposo del sabato).

Ma cosa ci insegna la data di scadenza della manna? Che esistono cose, momenti che non ritornano più (i famosi treni che passano da prendere al volo), che vanno consumati in quel tempo, perché il tempo donato ha un valore nell’oggi.

Ci viene in aiuto il Salmo 89 che recita: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”, indicandoci la via della sapienza contando ogni singolo giorno che stai vivendo: contare l’oggi significa vivere ogni occasione come fosse l’ultima, perché ci sono tempi che non ritornano più (es. Incontrare la stessa persona nello stesso luogo in tempi diversi porta ad un differente effetto, in quanto cambia inequivocabilmente il contesto).

Attenzione che non si sta avvalorando la teoria del “carpe diem”, ossia del prendi tutto ciò che passa perché ogni lasciata è persa; la Parola ci invita a selezionare con la Sapienza ciò che viviamo, fermandosi ad ascoltare nell’oggi la voce di Dio, ad osservare ed afferrare ciò che vale per ognuno di noi, con lo scopo ultimo di vivere in pienezza.

Israele ha trascorso 400 anni in cattività prima di rendersi conto del peso della schiavitù in Egitto, ha impiegato 40 anni per raggiungere la Terra Promessa, girovagando per il deserto a vuoto, perché hanno raggiunto tardi la consapevolezza della qualità infima del tempo speso.

E’ fondamentale dare un senso al proprio tempo, dicendo SI a tempo debito quando ci viene chiesto, senza rimandare o anticipare le decisioni, senza l’ossessione o il timore di sprecar tempo.

Perché hai solo un tempo da vivere, e questo tempo è OGGI.



Goditi ogni secondo

$
0
0

Da quanto emerso nelle prime tre Parole, non potremo più esimerci dal vivere ogni secondo della nostra vita, quella nell’oggi, gustandola per la bontà e la bellezza che Dio ci ha inserito.

E’ chiaro che la vita che stiamo vivendo non la decidiamo noi: nessuno ha deciso di nascere, o la propria statura, la città natia ecc...

Possiamo barcamenarci controllando il più possibile la nostra esistenza, ma l’obiettivo ci sfuggirà inesorabilmente perché le regole del gioco sono stabilite da un Altro; e allora potremmo cadere in depressione, oppure in preda all’ira per l’impossibilità di cambiare il corso del destino, oppure ancora meglio, accogliere la vita così com’è!

Ogni tentativo di realizzare il progetto di felicità da noi stessi è destinato a fallire, e comporta un’alterazione delle relazioni con chi ci sta accanto, sia egli un nostro amico, un familiare, il coniuge; l’altro conta nella misura in cui mi serve, poi lo accantono alla stregua di un oggetto “usa&getta”.

Invece occorre considerare la presenza di Dio nel progetto felicità, di un Dio che ci perdona senza rispondere al male che commettiamo. Essere felice significa giocarsi tutto obbedendo alla Sua Volontà, amandoci mescolando le trame della nostra libertà con Dio, cioè con qualcosa di più grande di noi, di eterno.

Quando ci amiamo tirando in mezzo Lui nelle nostre relazioni allora siamo trascinati in un vortice di gioia più grande delle difficoltà che quell'amore deve affrontare. Con Lui le cose durano, senza di Lui tutto è destinato a finire.

Vivere maledicendo ogni giorno la propria vita costa davvero fatica, ed è soprattutto un’assurdità: ogni secondo ha in sé una bontà e una bellezza che ci ostiniamo a non vedere, perché ci concentriamo su ciò che vorremmo e non abbiamo, o su quel che è accaduto nella nostra vita senza riuscire ad impedirlo.

Impariamo a guardarci in Verità, impiegando bene il nostro tempo senza dilapidarlo inutilmente: ognuno di noi ha un conto corrente aperto in Banca della Vita, ed ogni giorno ci vengono depositati ben 86400 secondi da spendere al meglio.

Questa banca non conserva saldi né permette trasferimenti. Ogni notte elimina il saldo del giorno, e il giorno successivo ti rinnova l’accredito.

Se non utilizzi il deposito giornaliero, la perdita è tua. Non si può fare marcia indietro, non esistono accrediti sul deposito di domani.

Devi vivere nel presente con il deposito di oggi.



LA QUARTA PAROLA

$
0
0

Esodo 20,12

 

Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio.

 

La Quarta Parola è un po’ lo spartiacque del Decalogo, in quanto sposta la prospettiva dall’identità di Dio, dalla nostra relazione con Lui delle prime Parole, alla vita quotidiana di relazione col prossimo delle restanti Parole, cominciando dal rapporto con i genitori.

Intanto individuiamo subito una ricompensa in questa Parola: la riconoscenza verso i genitori ci permette di prolungare i nostri giorni, in senso qualitativo più che in senso quantitativo, ossia saranno equilibrati, ordinati, intensi piuttosto che lunghi.

Onorare in ebraico è espresso col verbo «kabbèd» che vuol dire propriamente «dare peso», ossia rendere il giusto valore, opposto al verbo disprezzare; il vero valore è indicato nelle Scritture dal termine “gloria” (es. Ho contemplato la Gloria di Dio).

Quindi ci viene detto che la nostra felicità dipende da quanto hai onorato i tuoi genitori: disprezzarli ti conduce inesorabilmente all’infelicità.

Quel che sei oggi è determinato dagli episodi di vita vissuti insieme ai tuoi genitori, che consapevolmente o incosciamente ci hanno segnato; malgrado tutto ciò, la felicità è raggiungibile.

Se i genitori “pesano” più del dovuto, può anche accadere che essi gravino pesantemente sui figli, impedendo che diventino autonomi.

Se “non pesano affatto”, questo non determina un allegerimento dei figli; anzi, rischiano di portare il peso che è mancato ai genitori, rischiano di passare la vita a rimediare alle mancanze dei genitori, a tentare di essere ciò che i genitori non sono stati.

Riconosciamo ai nostri genitori il diritto alle loro lacune, il diritto alla loro storia, per non trascorrere la vita a rimediare quella che sembra essere una lacuna delle loro esistenze, della loro vita. In questo caso si trascorrerebbe la vita a “vivere” ciò che essi non hanno vissuto, a ripetere le loro mancanze progettando di rimediarvi invano.

Guardiamo in faccia ai solchi lasciati dal rapporto coi nostri genitori, che ci hanno dato la vita ma che non ci siamo scelti noi; dobbiamo avere il coraggio di prendere in mano le nostre sofferenze, senza temere di mostrare le fragilità ereditate dall’impostazione che abbiamo ricevuto nei primi anni di vita.

Spesso queste ferite vengono da noi occultate accuratamente, perché fa male entrare in  profondità; usiamo la strategia del “callo” che copre la ferita con strati di pelle morta, anestetizzandoci a dovere per paura di soffrire.

Invece Dio ci chiede di entrare nella nostra storia dandole il peso opportuno, il giusto valore, perché noi siamo la nostra storia, e dobbiamo esser consapevoli che nel nostro oggi ci sono i segni lasciati da persone imperfette e fallaci, come lo sono state i nostri genitori; in palio c’è la felicità!



Il mantello della Misericordia

$
0
0

Genesi 9,20-27

 

20 Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. 21 Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all'interno della sua tenda. 22 Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. 23 Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono il padre scoperto; avendo rivolto la faccia indietro, non videro il padre scoperto.

 24 Quando Noè si fu risvegliato dall'ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; 25 allora disse:«Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!».

 26 Disse poi: «Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! 27 Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!».

--------------------------------------------------------

Iniziamo col puntualizzare che il libro della Genesi non racconta fatti storicamente avvenuti, ma è un libro intriso di sapienza divina che ci viene tramandata dal VI-V secolo a.C.

L’episodio in questione vede come protagonista Noè, grande patriarca sopravvissuto per fede, insieme alla sua stirpe, al diluvio universale; qui lo incontriamo mentre coltiva la vigna ed assaggia il vino, finché si accascia nella propria tenda, nudo ed ubriaco.

Lo stato di ebbrezza di Noè, il primo a piantare una vigna e produrre il vino, è un richiamo all'ambivalenza della creazione che, pur essendo buona, può essere usata male: Noè, ubriaco, si spoglia, perdendo così la propria dignità (“Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna” Gen 2,25), e mostra tutta la sua fragilità di uomo.

Vero che il vino rallegra il cuore dell'uomo, ma l'ubriachezza lo rende folle (“Per chi i guai? Per chi i lamenti? [...] Per quelli che si perdono dietro al vino”  Prov 23,29-30).

La nudità porta con sé qualcosa di profondo, mostra l’essenza di un uomo, rivela la sua identità: per questo metterci a nudo non ci è per nulla naturale.

Entra in scena Cam, il secondogenito di Noè, che non rispetta la dignità paterna: infatti, non si limita a violare la nudità del padre, ma chiama a raccolta i suoi fratelli per farne oggetto di scherno, deridendone la debolezza.

Godere delle fragilità del proprio genitore non è una situazione atipica anche per noi; è una reazione difensiva, a protezione delle nostre ferite.

Lo stesso vale nel desiderare madre e padre differenti, perché li riteniamo colpevoli delle ferite che la vita ci ha inferto: ci portiamo dentro una parte dei nostri genitori, l’impostazione che loro ci hanno dato, e siamo pronti a contestare le loro debolezze allorché affiorano.

Ricordiamoci che il nostro corpo, la nostra nudità, esprime ciò che siamo, la nostra identità; e non ci si trova a proprio agio quando qualcuno ci osserva e viola la nostra intimità.

La nudità è sacra, e valicare certi confini provoca delle conseguenze negative (Levitico 18,7-19); occorre rispettare il senso del pudore, non valicare il limite dentro al quale noi abitiamo e diventiamo unici e irripetibili per l'altro che si relaziona con noi, sia fisicamente che interiormente.

Gli altri due fratelli coprono la nudità del padre dando le spalle alla sua debolezza, senza sguardo morboso su di essa; non entrano nella sua intimità, non la giudicano, non la occultano fingendo che non sia mai esistita... ma la coprono!

Sem e lafet ripetono su Noè la stessa azione che Dio compì sulla coppia umana (“Il Signore Dio fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” Gen 3,21): ne coprono la nudità senza guardare, restituendogli così la dignità perduta a causa dell'ubriachezza.

C’è una libertà in più, quella di vivere con misericordia il male che abbiamo dentro, riconoscendolo come tale ma senza entrare nella fragilità di nostro padre e nostra madre, probabili corresponsabili; non ci è lecito violare la nudità dei nostri genitori, occorre fermarsi sulla soglia, prendendone atto e coprendola col mantello della Misericordia... e ci sarà sempre un futuro di liberazione.

Altrimenti si farà la fine di Cam, la cui stirpe verrà maledetta e ridotta in schiavitù, epilogo inglorioso al quale son destinati tutti coloro che maledicono i propri genitori per quel che hanno da loro ereditato.

Occorre sottolineare che il mantello non ha valore salvifico per i propri genitori, dato che non è lecito al figlio salvare il padre, non fa parte delle sue responsabilità.

La Misericordia è la strada per la propria salvezza, non per quella dei nostri genitori, qualunque sia stato il nostro percorso di sofferenza; ce lo insegna il Crocifisso!

Anche a Gesù, condannato ed appeso sulla croce, son stati concessi due gesti misericordiosi: il fiele offerto, usato come narcotico per attenuare il dolore, e il panno che ne copre la nudità (in genere gli schiavi venivano crocifissi nudi dai romani).

La Misericordia porta benedizione! A Sem, capostipite degli israeliti, e a Jafet, viene loro offerto in schiavitù il popolo dei Cananei. Jafet rappresenta i popoli dell'occidente e in particolare i filistei, e viene visto in una pacifica relazione con il fratello Sem e sotto il segno della benedizione divina; si può facilmente dedurre dal verbo “dilatare” presente nella frase rivolta a lafet il segno del futuro ingresso dei pagani nella comunità dei credenti!



Paternità perduta

$
0
0

Romani 8, 15-16

 

15 E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». 16 Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio.

---------------------------------------------- 

 

 

 

 

 

Scegliere una vocazione, un posto in cui portare frutto è l’unico modo per essere felici. È un privilegio enorme che abbiamo, un regalo di Dio che decide di fidarsi di noi al punto da rispettare la nostra libertà sopra ogni cosa, anche quando va contro il nostro interesse. Scegliere è la cosa più bella che possiamo fare. Scegliere l’impegno, qualcosa su cui investire davvero, rischiando tutto, abbracciare una vocazione, una sola, è quello che ci fa fiorire, ci fa portare frutto. Noi pensiamo di riempire quell’impronta di vuoto da cui siamo tutti segnati facendo le cose di testa nostra, ma invece l’unica cosa che sazia, veramente, che manda via la fame, è perdere la vita per qualcuno, di gran lunga la cosa più bella che possiamo fare.

È il padre che insegna al bambino, prima, e poi al giovane uomo, il fatto che non è lui, il bambino, a essere arbitro della realtà, non è lui a sapere da solo quale sia il bene e quale il male.

È il padre che rappresenta il senso della realtà, il limite, la necessità di posticipare la gratificazione. Questo processo di apprendimento può essere doloroso, anzi, lo è necessariamente, perché qualche rametto all’albero va potato.

Il padre ha il coraggio di dare questi piccoli dispiaceri al figlio, perché ha uno sguardo che vede più alto e più lontano; si comincia fin dall’infanzia, considerato che si ritiene come prima ferita inferta quella del papà come incomodo che ci separa dalla mamma, sua moglie in primis.

Perché per essere felici è necessario avere una strategia dentro la propria vita. Non si può vivere a caso. I comandamenti sono la pianificazione di una "vita buona".

Ma per essere felici non basta stare a delle regole, bisogna poi avere l'incoscienza di rischiare la propria vita per qualcosa di grande, per qualcosa per cui daresti via tutto.

Putrtoppo la società in cui viviamo amplifica il fascino della ribellione, del fare quello che gli altri non fanno, il mito della trasgressione, dell’infrangere le regole; e naturalmente mettiamo in discussione quella figura che come prerogativa nella famiglia è il depositario di dette regole, ossia il padre.

Dalla rivoluzione francese alle recenti leggi sul divirzio, aborto ecc.. sono direzionate verso il concreto ridimensionamento della figura paterna, col concetto di uguaglianza e fratellanza, abiurando ogni forma di gerarchia, fino a sbilanciare i diritti di genitorietà verso la madre: ed ecco una generazione di padri “molli” poco direttivi.

Il termine “padre”, dal greco antico, significa “recinto”, luogo protetto dove puoi crescere; la società moderna ci chiede invece di non crescere, di rimanere bambini ribelli e capricciosi che non si assumono responsabilità alcuna.

Facciamo così a meno del padre, così come ci convincono che non abbiam bisogno di Dio, infischiandocene delle regole sempre concentrati sul nostro bene prima di quello altrui: la disobbedienza è l’opposto dell’amore, in quanto comporta un’imposizione della propria volontà.

L’amore è condivisione ed accettazione delle ferite del fratello, e la fratellanza senza un padre è pura illusione; il mondo ci vuole orfani!

La nostra vita è una sequela di episodi più o meno spiacevoli, intervallati fortunatamente da molte gioie: rifiutare questa realtà, trasgredire alle regole naturali, non accettare i propri limiti, non sopportare l’altro conduce inesorabilmente al rifiuto della vita!

La fratellanza passa attraverso la figliolanza da un unico Padre; ma emuli del figliol prodigo, sfruttiamo nostro padre finché serve, per poi riporlo in un angolo.

L’amore è profondamente obbediente alla realtà, nonostante la sua crudezza in certi casi, e la felicità dipende strettamente dall’obbedienza alla propria storia; e il risultato sarà, tornando a casa, quello di riscoprire l’abbraccio di un Padre così, che ci attende sulla soglia.

 

“Venite a Me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e Io vi darò riposo. Prendete su di voi il Mio giogo e imparate da Me, perché Io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il Mio giogo è dolce e il Mio carico è leggero” (Mt 11:28)




Ha l'età, chiedetelo a lui!

$
0
0

Giovanni 9, 18-23

 

18 Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19 E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?». 20 I genitori risposero: «Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; 21 come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l'età, parlerà lui di se stesso». 22 Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23 Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l'età, chiedetelo a lui!».

_____________________________________

 

La nostra felicità dipende da come noi abbiamo vissuto la nostra storia coi nostri genitori, dando il giusto peso, nel bene e nel male, nella concretezza del quotidiano.

Onorare i genitori non significa dunque stender loro dei tappeti rossi, elevarli, ritenerli perfetti, perché sono creature fragili come noi, e devono fare i conti con le loro ferite.

Per esempio, è emblematico il comportamento dei genitori nell’episodio del “cieco nato”, che non si compromettono, non prendono le sue parti, ma astutamente demandano la responsabilità delle proprie affermazioni al figlio maggiorenne, evitando ogni pericolo di esser accusati d’eresia.

Consideriamo la situazione dal lato del figlio, che vede per la prima volta il volto dei propri genitori, dopo che li ha sentiti vicino, udendone solo la voce; e le parole che ora ascolta sono piene di timore del giudizio, non prendono le sue difese.

Quante volte avremmo voluto che i nostri genitori prendessero posizione a nostro favore, e soprattutto per se stessi, per dare una svolta all’esistenza... ma nulla! In fondo, tutti noi abbiamo diritto ad avere un padre, ma senza alcuna garanzia sulla sua “bontà”.

Malgrado ciò, la paternità (maternità) è la nostra reale vocazione, perché siamo chiamati ad essere FECONDI, a generare vita... e non è un discorso meramente biologico; il rischio è che la tua vita perda di sapore.



Ti basta la Mia Grazia

$
0
0

Marco 7,15

 

«Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo».

------------------------------------------------------

Ci sono molti luoghi comuni difficili da debellare che governano la nostra esistenza, ed uno di questi recita: Tale padre, tale figlio.

Se poi analizzassimo alcune deduzioni spicciole derivanti dalla più ampia teoria psicanalitica di Sigmund Freud, potremmo affermare che quello che siamo ora sia frutto dei traumi subiti durante l’infanzia, che provocano un istinto ad operare di conseguenza.

In soldoni, i problemi che sto vivendo, e il mio comportamento in reazione ad essi, sono frutto del vissuto dei miei genitori, a loro volta dipendente dal vissuto dei nonni fino ad arrivare, risalendo l’albero genealogico, ad Adamo ed Eva, sempre seguendo un rapporto causa-effetto del tutto meccanico, e quindi deresponsabilizzante.

Ma la Parola di Dio che affronta il tema della purezza (Mc 7,15), ci propone un ribaltamento della prospettiva secondo il quale ciò che entra, che affrontiamo o subiamo dai nostri genitori, ci determina e ci contamina. Viceversa, è quel che esce dal nostro cuore che conta, ossia la risposta alla situazione vissuta, che purtroppo spesso e volentieri ricade nel giudizio.

Si può affermare senza ombra di dubbio che la nostra vita dipende dal come si reagisce a ciò che ci è accaduto in passato, senza alcun determinismo consequenziale puramente meccanico tra la storia dei nostri genitori e la nostra. E la prova provata la riscontriamo nella vita dei Santi.

Consideriamo san Camillo de Lellis (1550 – 1614), che prima di convertirsi ed entrare nell’Ordine dei Cappuccini dedicandosi ai malati, fu soldato di ventura alla stregua di suo padre, col vizio del gioco, tanto da perdere tutti i suoi averi; ma rendendosi conto del bisogno degli altri, si dona al prossimo rivoluzionando l’attività ospedaliera del tempo.

E il beato Charles de Foucauld (1858 – 1916), protagonista di una giovinezza scapestrata, «senza niente negare e senza niente credere», impegnato solo nella ricerca del proprio piacere. Intraprese la carriera militare, ma fu congedato con disonore «per indisciplina aggravata da cattiva condotta». Eppure ad un certo punto della sua vita decide di «vivere solo per Dio», facendo l’eremita nel deserto in Tunisia: ai cristiani, musulmani, ebrei e idolatri, che passavano per la sua oasi, si presentava come «fratello universale» e offriva a tutti ospitalità.

Ed ancora, san Pietro Armengol (1238 – 1304), l’esempio più eclatante di quanto stiamo sostenendo, che in gioventù non fu proprio un santo, tutt’altro... con la superbia e l’irrequietezza del suo carattere, vissè una vita di vizio e di incontrollata avventura; attirò su di sé l’odio dei concittadini di ogni ceto, perché costretti a subire la sua prepotenza e le sue ingiurie. Arrivò a mettersi a capo di un gruppo di banditi, e dopo aver lasciato casa e famiglia, fuggì sui monti, seminando il terrore nei paesi e il pericolo sulle strade!

In seguito, il re di Spagna incaricò Arnaldo Armengol di debellare il banditismo, e quando venne a trovarsi di fronte alla banda capeggiata dal figlio Pietro, si ebbe l’inattesa svolta: Pietro venne colpito dalla grazia e si pentì della vita che aveva condotto fino ad allora, entrando nell’Ordine della Mercede. La crudeltà si trasformò in fervida carità e i vizi in continua preghiera e dura penitenza, arrivando ad offrirsi come ostaggio per il riscatto di alcuni cristiani tenuti prigionieri dai musulmani.

Quindi non siamo determinati da ciò che ci è accaduto!!!

E se siamo insoddisfatti, e crediamo alla promessa di riempire le reti seguendo le 10 Parole, non possiamo non tener conto della vita dei Santi, coloro che hanno vista realizzata questa promessa, che hanno vissuto la pienezza della gioia, che hanno raggiunto la salvezza (che non è la salute, il potere o la ricchezza).

Perché le nefandezze, le violenze alle quali abbiamo assistito o subìto, entrano in noi ma non ci determinano! Viceversa, il giudizio che esce dal nostro cuore è causa di impurità!

Non vogliamo affrontare i traumi a muso duro, ma vogliamo incontrare Cristo!

Il mondo, tuttavia, la pensa diversamente alle prese col filone di derivazione positivista, che pone le sue basi nella realtà dei fatti concreti, reali e sperimentali, contrapponendosi a ciò che è del tutto astratto.

In sintesi, il positivismo parte dall’assunto che tutto ciò che non è osservabile non esiste.

Un parere discordante rispetto quello espresso dallo scienziato (cristiano) Albert Einstein, che afferma che: “La cosa più bella che noi possiamo provare è il senso del mistero: esso è la sorgente di tutta l'arte e di tutta la scienza. Colui che non ha mai provato questa emozione, colui che non sa più fermarsi a meditare è come morto, i suoi occhi sono chiusi”.

Si passa da una visione regolamentata dal principio di causalità, ad un’altra meno razionale e meccanica che apre al trascendente, frutto del principio di finalità; da un destino inevitabile dopo un’infanzia travagliata, “una partenza in salita” indesiderata, ad una vita dove c’è spazio per la Grazia che fa svoltare, che ti orienta verso la missione.

Gesù stesso a 12 anni risponde in maniera inequivocabile e illogica, secondo la nostra piccola visione del mondo, ai suoi genitori che lo cercavano disperatamente a Gerusalemme: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ognuno di noi, in quella situazione, avrebbe accampato mille scuse per evitarsi una punizione, essendo consci della marachella commessa.

Invece Gesù sottolinea la missione, ossia ciò per cui sei venuto al mondo, sei stato chiamato: non esistono solo le cause di un’azione, ma anche il fine per il quale essa si compie.

Osservando il cosmo, dal greco κόσμος che significa "ordine" (concetto opposto a caos), non si può non ravvedere una bellezza di fondo (la parola cosmetico deriva dalla stessa radice); la nostra vita ha una meravigliosa missione che non può essere compresa affrontando l’esistenza a tentoni, casualmente.

Ogni trauma o fatica che quotidianamente affrontiamo potrebbe essere funzionale alla missione (es. solo un orfano può capire interamente la sofferenza che si prova in quello stato e darsi da fare in futuro per altri orfani), ma è indispensabile accogliere la Grazia, incontrare Cristo ed aprirsi al suo abbraccio, senza restare inchiodati alla croce: in una sola espressione, risorgere!

Aprirsi alla Grazia significa donarsi, perché nella propria piaga personale c’è paradossalmente la chiave per aiutare il prossimo.

Accettare la Grazia significa schierarsi, mettersi alla mercé del giudizio altrui, di coloro che sono ripiegati su sé stessi, nel pessimismo, nell’indignazione, nella rassegnazione, coloro che forse invidieranno la tua testimonianza di vita nella quotidianità, ossia il tuo personale “annuncio del Regno”.

Chiediamo la Grazia, pretendiamola e difendiamola dalla realtà positivista e relativista che vuole rubarcela.



Abbandona il nido

$
0
0

Matteo 10, 34-39

34 Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. 35 Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: 36 e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa.

37 Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; 38 chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. 39 Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.

-----------------------------------------------

Siamo tutti chiamati ad entrare in combattimento illuminati dalla Verità dell'amore di Dio, nessuno escluso! E dobbiamo farlo prendendo atto della realtà: i nostri genitori sono imperfetti, peccatori.

Ma allora Dio dov’era quando loro stavano anche inconsapevolmente sbagliando nei nostri confronti pensando di fare il bene? Perché Dio permette ciò?

Fuor di dubbio che a causa di questa situazione, noi ci trasciniamo problemi dall'infanzia. Ad un certo punto della nostra vita, occorrerà recidere il “cordone ombelicale”.

Nel Vangelo di Matteo si parla di una spada. Occorre tagliare! Perché rischiare di perdere la vita comoda fatta di certezze, significa in realtà donarla!

Per natura l'uomo non può darsi la vita: quindi la chiede agli idoli che finiscono per sottrargliela totalmente, rendendo l’uomo schiavo.

E la difende e se la conserva, come fece il popolo di Israele che volle conservare la manna per il giorno dopo, pur consapevole della scadenza giornaliera. E crede fermamente nell'illusione della sicurezza, ma quella vita fatta di vacue certezze è una vita non vissuta, perduta.

In base ai rapporti che vengono instaurati coi genitori, si possono intravedere alcune tipologie di figli:

- IL MAMMONE, che ha ricevuto tutto dai genitori (attenzioni,  affetto, beni materiali ecc...) impegnato costantemente nel difficile compito di non perderne la stima dei genitori che gli han dato la vita. E non vuole certo mollarla più la vita ricevuta. Ma deve rientrare negli schemi dei genitori, giocare alle loro regole.

E' un idolatra, legato alla vita che gli danno mamma e papà. Ma il tempo che ci è concesso è unico e non va sprecato.

- IL RIBELLE, che odia profondamente i genitori perchè hanno sbgliato tutto nei suoi confronti, hanno fatto preferenze tra fratelli e magari l'hanno abbandonato.

Aveva diritto di avere la vita, la pretendeva e i genitori non gliel'hanno data. E' irascibile, viene ferito dai genitori o crede di esserlo stato, anche da adulto.

E' un idolatra, convinto che la vita è persa perché è quella che i genitori non gli hanno dato.

- L'EQUILIBRISTA, ambiguo nei comportamenti, ed è la categoria più numerosa.

E' un falso libero, sempre con le spalle coperte: conserva la tana delle certezze dei genitori, nella quale può tornare alla bisogna, e spesso incasella il coniuge in un cliché che deve rispettare, altrimenti... Agganciato al suo cordone ombelicale lunghissimo, si procura da sè la vita.

E’ l’idolo al quale chiedere la sicurezza.

Ma la vita non te la danno i genitori! Gesù afferma che non siamo nati per stare in questa logica.

Scegli chi ti da la vita, la parte migliore, la vita eterna.

Si può vedere Dio che opera in una situazione maledetta, nell’abbandono di un figlio, negli abusi. E tu benedici.

Perché i genitori sono destinati a deluderci, sono una struttura di passaggio.

C'è bisogno di distacco, non di sicurezze per cercare la volontà di Dio, l'uomo spirituale, l'uomo rinato dall'alto!

Cerchiamo la vita nello Spirito, la vita nuova, la vita piena, quella che si ottiene quando la si dona, con la missione di amare come Gesù Crocefisso, con la vocazione alla santità!

Il primo utero è la pancia della madre, posto sicuro che però ad un certo punto diventerà stretto tanto da costringere il bimbo ad uscire. Poi c’è un secondo utero, le braccia della mamma, la famiglia che si prenderà cura del bimbo, che lo accompagna verso l’età adulta ... ma la vita la da solo Dio!

Abbandoniamo il nido!

E’ un lasciare per accogliere.

Il genitore deve portare il figlio all'autonomia perché si affidi a Colui che dà la vita. Deve offrirgli le armi per affrontare la vita.

I genitori devono essere un "altro", una sponda utile a darci la vita biologica per consegnarci alla Vita di Dio, lasciandoci liberi di percorrere la strada verso la Santità che non è altro che la capacità di rendere straordinario l'ordinario.

Sei figlio di Dio se accogli la vocazione, se realizzi il progetto divino pensato per te senza accontentarti della vita mediocre.

Non è certo un invito a cacciare di casa i figli! Fin dalla creazione, ci viene insegnato che la separazione diventa ordine. La fatica nella identificazione diventa poi chiarezza nella distinzione, in  armonia col resto del creato.

Non siamo creati per difendere la nostra vita ma per donarla

Il nostro Dio farà di tutto per darci la vita dall'alto rispettando la nostra libertà; ora tocca a noi decidere di Chi vogliam esser figli!



Lascia che i morti seppelliscano i loro morti

$
0
0

Luca 9, 57-62

 

57 Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». 58 Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo». 59 A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre». 60 Gesù replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va' e annunzia il regno di Dio». 61 Un altro disse: «Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa». 62 Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

--------------------------------------------

 

 

La Parola che abbiamo preso come riferimento è molto dura, ci interroga ma soprattutto ci scuote dal torpore, proiettandoci dalla certezza della monotonia quotidiana verso l’inatteso futuro; un po’ come nella musica, quando si ascolta lo stesso ritmo ci si assopisce (effetto ninna-nanna sfruttato al meglio dalle mamme), mentre un ritmo sincopato ci attrae in tutta la bellezza dell’imprevisto.

Ci viene detto che volpi e uccelli hanno la loro tana, mentre il Figlio dell'Uomo non ha la sicurezza, perché la bellezza sta nella pienezza del progetto divino promesso; non ci promette un futuro stabile economicamente, una casa, un contratto a tempo indeterminato, ma la gioia piena!

Per questo che i morti, i “non risorti” vanno abbandonati: nelle Sacre Scritture viene più volte riportata la teoria del taglio netto, come nel caso di Eliseo (1 Re 19, 19-21) che riceve il mantello di Elia, e viene rimproverato perchè pensa di salutare i genitori.

L'aratro della tua vita non avanza se ti volgi indietro, come la moglie di Lot che diventa una statua di sale (Gen. 19, 15-26).

Il taglio netto è un requisito strategico fondamentale per la riuscita del progetto divino sulla tua vita, progetto non facilmente identificabile, dato che l'ascolto di Dio non è un processo automatico.

Il Vangelo di Luca che stiamo considerando è proprio il fulcro tra quel che avviene prima e quel che avverrà dopo l'ingresso in Gerusalemme, ossia il compimento della sua missione.

 

La metafora del nido o della tana sta ad indicare un luogo protetto, dove ci si nasconde; ma prima o poi si deve uscire prima che imploda!

Anche per Gesù è stata la stessa cosa, ed ha abbandonato i suoi genitori, due Santi genitori, e non ha avuto un’infanzia semplice, dall’esodo in Egitto in poi: Maria, per via della sua vicenda, viene additata come prostituta, e Gesù nel Talmut viene chiamato figlio della pantera.

Non è necessario seppellire il proprio padre, ossia pensare di esaurire il proprio ruolo di figlio; più attendi e più sei morto, trovi alibi, prendi tempo per giustificare il tuo immobilismo continuando a masticare coi denti da latte.

Ricordiamoci che non tutto può essere risolto tra genitori e figli, soprattutto vicende dolorose che provocano molta sofferenza (es. percosse, abbandoni, ecc...): ci sono snodi che devi necessariamente guardare da lontano senza fartene carico, problemi esterni da non analizzare,  perché non ci compete aggiustare la vita dei nostri genitori.

 

Ci sono situazioni disastrose da lasciar andare, e ci sono poi situazioni meno gravi che invece possiamo affrontare: ce lo insegna anche la medicina del disastro e delle emergenze, ove si applica il “triage”, dando priorità a coloro che sono effettivamente salvabili ed abbandonando chi non può esser più salvato, in quanto sottrarrebbe tempo prezioso ai primi... perché "Io sono altro!".

Ma c'è una via di uscita? Gesù ci dice: "Seguimi!".

C'è una realtà oggettiva che ci imprigiona: vale davvero la pena perderci tempo? Spostiamo lo sguardo sul liberatore, fidandoci di Lui.

Seguire Gesù significa riscoprire il vero rapporto filiale col Padre Celeste, svoltare abbandonando le certezze in direzione della Terra Promessa.

 

MA È NECESSARIO CHE OGNI RIGURCITO DI SOFFERENZA SIA SCACCIATO VIA; citando la Divina Commedia: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

 



La teoria della retribuzione

$
0
0

Giobbe è provato dalla malattia, dopo essere stato privato di beni e prole, e si ritrova con il corpo dolorante e pieno di piaghe.

Ecco sopraggiungere tre amici che si recano a trovarlo; essi si siedono vicino a lui, e per una settimana, giorno e notte restano in silenzio, come se stessero celebrando un funerale... ma Giobbe non è ancora trapassato!

Questo silenzio ci dice non solo che nelle disgrazie non importa tanto parlare, quanto essere vicini a chi vogliamo bene; con il silenzio Giobbe ha modo di riflettere sul mistero di Dio e dell’uomo, fino ad arrivare a maledire il giorno della sua nascita, il giorno del suo concepimento, la  propria intera vita.

Qui Giobbe si chiede il PERCHE’ di tante cose: della sua nascita, della sua esistenza, della sua sofferenza.

Nel suo monologo egli afferma di preferire la morte alla sofferenza, una morte in cui non vede una conclusione della vita e della sofferenza che lo prova, ma un passaggio ad una vita migliore.

A questo punto prendono la parola i tre amici di Giobbe, i quali iniziano con le loro teorie ed i loro consigli.

Tutti e tre in sostanza diranno la medesima cosa, basata appunto sulla teoria della RETRIBUZIONE

 

Elifaz, il primo amico, sostiene che se stai soffrendo è perché in qualche modo hai peccato; non soffre chi è innocente, per cui, secondo l’amico Elifaz, Giobbe dovrebbe chiedere perdono a Dio, ipotizzando che Giobbe Lo avesse in qualche modo offeso.

Quindi l’uomo è intrinsecamente fragile, e tale fragilità gli impedisce di presentarsi davanti a Dio come una persona giusta.

Bildad ribadisce questa teoria parlando anche dei figli dell’amico che sono morti, con l’enunciazione previa dell’impossibilità di Dio di essere ingiusto: essi probabilmente, dice, sono stati puniti per qualche motivo, e suggerisce a Giobbe di pentirsi così che Dio lo avrebbe di nuovo ricompensato, nella logica della fedeltà/benedizione e infedeltà/maledizione.

“Ricordalo: quale innocente è mai ferito e quando mai furono distrutti gli uomini retti?”.

In entrambi i casi Giobbe risponde arrabbiandosi, e sfidando gli amici a dimostrargli dove ha peccato.

Il terzo, Zafar, rimproverà anch’egli l’amico, spiegandogli la sua disapprovazione verso il tentativo di Giobbe di CAPIRE: Dio è giustizia, e se sarai buono, ti darà di più in futuro di quanto ti sta togliendo.

 

Giobbe nuovamente si adira, e considera di poco aiuto le parole dei tre: per lui le loro argomentazioni non hanno valore.

Questo perché Giobbe è SICURO della sua integrità.

 

Successivamente entra in scena Elihu, che esprime il suo dissenso, sia verso i tre amici che verso Giobbe. Questi hanno smesso di rispondere a Giobbe, perché egli si considera ancora un giusto.

Agli amici rimprovera di non essere stati capaci di dare una risposta giusta ed hanno solo condannato Giobbe.

A Giobbe contesta il giustificare se stesso anziché Dio, affermando che Dio è più grande dell'uomo e non rende conto dei Suoi atti all'uomo: per Elihu lo scopo di Dio è disciplinare, non solo o per forza punitivo; che Dio può usare l'afflizione per attrarre i giusti.

Dice quindi a Giobbe di aver la pazienza.

Ma Giobbe non ha mai contestato la superiorità o la grandezza di Dio.

Egli contesta che i limiti dell’uomo debbano proprio per questo farlo tacere davanti a Dio.



La rabbia di Giobbe

$
0
0

Giobbe 42, 5

 

 Io ti conoscevo per sentito dire,

ma ora i miei occhi ti vedono.

 

Giobbe è convinto che Dio sia grande, sia infinito, ma sia anche giusto; così pone la domanda a cui egli non trova risposte: PERCHE’?

 

Così Giobbe mostra di essere arrabbiato con Dio, dibattendosi contro il suo silenzio, tanto da voler fare un “riv” a Dio stesso. Riv è un termine ebraico che indica l’intentare una causa, il litigare, la contesa, in cui generalmente l’imputato è già colpevole prima dell’inizio del processo.

 

Nel capitolo 38 finalmente Dio replica, chiedendo: se l’uomo non osa levarsi contro delle bestie forti o feroci, perché osa farlo ipocritamente contro Dio?

In questo frangente Dio si conferma interlocutore dell’uomo, cioè un TU!

 

A questo punto Giobbe risponde di considerarsi un meschino, si pente di quanto detto, ammettendo che Dio può tutto, e nessun Suo disegno può essere impedito.

Giobbe dice di aver parlato senza capire di cosa parlasse, e che tutto ciò va ben oltre la sua umana comprensione.

 

Dio rimprovera anche i tre amici di Giobbe, in quanto hanno formulato ipotesi errate su Dio, che manda la sofferenza per punire. Giobbe era giusto nel non voler credere ciò.

 

Alla fine del libro Dio restituirà a Giobbe tutto, moltiplicandolo per due, mandandogli la Sua benedizione.

 

Ma perché nonostante la ribellione di Giobbe, Dio lo ricompensa?

 

Giobbe, chiedendo a Dio un confronto dimostra di avere ancora fiducia in Lui; così, se noi desideriamo realmente un rapporto autentico col Signore, se ci poniamo in modo sincero, non ipocrita, riceveremo risposta.

 

Dio si fa trovare proprio nell’assurdo, dove non lo cercheremmo mai, in quell’assurdità che fa parte della vita umana. Basta cercarlo.



Perché Dio permette le sofferenze?

$
0
0

Molte persone non accettano la sofferenza, nè fisica, nè morale; spesso, per eliminare il loro dolore, cercano di eliminare il sintomo senza andarne a ricercare la causa.

Come voler curare la pelle butterata con creme e impacchi, quando magari il vero problema di una pelle simile risiede nel fegato in disordine: se non si cura quello, non avverrà mai una vera guarigione; non useremo cure, ma anestetizzanti. Il male viene attenuato, magari va anche via per un po'....ma finito l'effetto anestetizzante si ripresenta.

 

Spesso scambiamo ció che è il vero sintomo (la nostra sofferenza) con il male vero, e vorremmo non soffrire senza occuparci di ció che in realtà è alla radice di questo processo.

 

Ma cosa cerchiamo? Un anestetico, oppure una luce per vedere e guarire la causa del nostro male?

 

Giobbe ci porta a pensare agli “Assurdi” della nostra vita: qualcosa che ci è capitato nella vita (che ricordiamo o meno, perché impossibilitati a farlo) e che ci ha segnato, più o meno fortemente, sentendoci vittime.

 

Succede che talvolta ce la prendiamo con gli altri, mentre in realtà ce la dovremmo prendere col NOSTRO ‘ASSURDO’. La storia di Giobbe ci invita a non avere paura di queste assurdità della vita, di NON fare finta di niente. Guardiamo in faccia il nostro Assurdo.

 

Se pensiamo a tutte le sofferenze del mondo, dalle più piccole alle più grandi, ci sentiamo impotenti e ci chiediamo perché esiste tutto ciò. Sono assurdità.

 

E se ci pensiamo bene, Gesù stesso crocifisso è un assurdo: un uomo innocente condannato, torturato, ucciso ingiustamente.

 

Giobbe non vuole accettare l’idea degli amici sulla teoria della retribuzione (soffri perché hai peccato, o come si dice oggi “la ruota gira!”), convinto che Dio non abbandoni mai l’uomo.

 

In effetti la teoria della retribuzione non ci può soddisfare nella ricerca della risposta al perché della sofferenza, in quanto spesso sono gli innocenti a soffrire, e non è vero che chi commette ingiustizie o atti perfidi verrà poi per forza punito nel corso della sua vita.

 

L’assurdità, la sofferenza, il male, fanno purtroppo parte di questo mondo.

 

Chi non è in pace, chi è sempre arrabbiato con tutto e tutti, è perché non ha accettato gli assurdi della propria esistenza.

 

Come abbiamo già detto, Dio è entrato nell’assurdità della vita umana, e l’esempio più lampante di ciò è Gesù crocifisso.

 

Oggi sempre di più ci si scorda di questo, e molti cristiani dubitano della fede in Cristo innanzi alle sofferenze, o alla vista delle sofferenze altrui, perché non riescono a credere in un Dio che possa permettere tutto ciò.

 

Ci si pone con Dio in una relazione di comodo, la via più facile, e spesso quella che tutti imboccano: fino a che stiamo bene, finchè le cose vanno lisce, di Dio magari ci scordiamo anche dandolo per scontato.

Quando poi accade qualcosa di brutto ci ribelliamo ritenendo il Signore ingiusto, ritenendo che le disgrazie ci siano state mandate da Lui, attribuendogli le colpe dei nostri assurdi.

 

Ci ribelliamo alla teoria della retribuzione, perché ci riteniamo come Giobbe innocenti, non abbiamo fatto nulla di male ‘per meritare tutto ciò’, ma la dottrina della retribuzione va bene quando a soffrire sono gli altri.

 

Troppo spesso ci dimentichiamo di una cosa fondamentale, data per scontato da noi e dalla società odierna: l’uomo si sente onnipotente. Sente che può fare tutto da solo; sente che può trovare da solo la pienezza della vita, la felicità.

Allora quando le cose vanno bene, è solo merito nostro; quando le cose vanno male è colpa di Dio.

 

Questa è l’ipocrisia del modo comune di pensare.

 

E ci scordiamo che Dio ci ha lasciato il libero arbitrio, e che l’uomo fin da subito ha voluto allontanarsi da Lui perché in grado da solo di scegliere e decidere ciò che fosse giusto e ciò che fosse sbagliato.

 

Quindi spesso moltissime persone parlano di Dio senza conoscerLo, e gli attribuiscono le colpe di una sofferenza nel mondo che non può certo venire da un Dio che ci ama, che soffre, ha sofferto, per noi e con noi.




LA PRIMA PAROLA (Es 20,3-5)

$
0
0

 

3 non avrai altri dèi di fronte a me. 4 Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. 5 Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano

------------------------------------------

 

 

Analizziamo ora la Prima Parola (per gli ebrei e alcune branche del cristianesimo è già la seconda): la parola idolo proviene dal greco Eidolon (immagine), o Eidos (aspetto, figura). Eido in greco vuol dire 'vedo'; nell’idolo quindi riportiamo qualcosa a cui diamo l’immagine.

L’idolo rappresenta una realtà visibile, oppure un progetto a cui diamo tale importanza da porlo al posto di Dio, qualcosa che crediamo ci dia la gioia, la Pienezza della Vita.

“non ti farai idolo” –quindi- “ né immagine di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”.

Allora per Israele il mondo era diviso in tre parti: cielo, terra e acque. Qui si indica la totalità del creato: pertanto il significato di non farsi un’immagine non solo è riferita al concreto, cioè a creare immagini o statue da adorare, ma in particolare ad una immagine mentale che prenda per importanza il posto di Dio.

 

Questa parte è molto dibattuta in quanto molte correnti del cristianesimo la prendono esclusivamente in maniera letterale, obiettando al cattolicesimo perfino il simbolo del crocifisso, o le rappresentazioni di Gesù, Santi e di Maria. Analizzeremo anche questo.

Prima però proseguiamo analizzando la frase “non ti prostrerai innanzi ”, ovvero non ti sottometterai, né diverrai schiavo di tale immagine: non cercherai, quindi, nell’idolo (e in lui solo) la fonte della felicità. Questo perché è Dio che possiere la pienezza della vita, e solo Lui ce la può dare!

 

Noi non la possediamo, perché per vivere dobbiamo per forza ‘prendere la vita’ da qualcos’altro: aria, acqua, cibo, affetto, riconoscimento, obiettivi da raggiungere.

Tutti abbiamo dentro di noi la necessità di trovare la felicità, di raggiungere quella pienezza di vita che ricerchiamo senza tregua, anche senza rendercene conto. Non conoscendo Dio, non sapendo chi è Dio, Lo ricerchiamo in cose, o persone, o ambizioni che nulla hanno a che fare con Lui.

 

Ecco come nasce l’idolo, che corrisponde ad un’illusione,  perché l’obiettivo da raggiungere, una volta raggiunto ci farà forse stare bene per un po’ di tempo, ma successivamente, prima o dopo, ricominceremo a sentirci insoddisfatti.

 

C’è chi innalza ad idolo una propria ambizione, per esempio nel lavoro o nella carriera: raggiungere un determinato grado o una determinata posizione. Una volta raggiunto tale traguardo cosa accade?

Siamo contenti per un po’ di tempo, ma presto ricomincia l’insoddisfazione, che fa nascere una successiva ambizione, un nuovo idolo, che ci porta a desiderare di nuovo fortemente qualcosa in cui buttiamo tutti noi stessi.

 

Ciò accade anche con le persone: col fidanzato/a, con il marito o moglie, con i figli, con i genitori.

Andiamo a identificare in una persona ciò che può darci la felicità, ponendo in essa delle aspettative che non sempre potrà soddisfare: è umana come noi, ha difetti come noi, avrà i suoi momenti no come noi.

Carichiamo, così, la persone di un peso, a volte idealizzandola, ma aspettandoci da essa la soluzione alla nostra ricerca di pienezza.

 

C’è chi si butta sul denaro e alla fine entra in un circolo vizioso perché non basta mai, e ci si accorge che la ricchezza non rende la vita di un uomo “piena”. C’è chi mette avanti la propria immagine, la cultura, o semplicemente oggetti quali auto, casa, telefono, abiti etc.

 

Non è sbagliato avere degli interessi, focalizzarsi su degli affetti, porsi degli obiettivi; l’errore sta nel ricercare in quella cosa o persona la pienezza della vita. E’ sbagliato cercare la pienezza in quella e in quella sola cosa, andando a sacrificare altre parti essenziali della nostra vita.

 

L’idolo schiavizza: promette la vita ma in realtà te ne priva; a lui ti prostri perché ti sacrifichi, e metti da parte le tue opinioni, le tue idee, i tuoi cari, pur di seguirlo. E alla fine l’idolo delude sempre, e quindi quella vita che con esso ci pareva in discesa, facile, poi torna ad essere in salita.

 

Mettendo quindi al posto di Dio qualcosa che non è Dio, rimarremo delusi perché alla fine quell’illusione si rivelerà per ciò che è. Se ci si inganna su Dio, ci si inganna su tutto.



Il vitello d’oro

$
0
0

Esodo 32, 1-4

 

1 Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: «Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto». 2 Aronne rispose loro: «Togliete i pendenti d'oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie e portateli a me». 3 Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. 4 Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto!».

--------------------------------------------------------------

Nel brano della Bibbia conosciuto da tutti come “il vitello d’oro” (in realtà si tratta di un toro), si affronta proprio il tema dell’idolatria. 

Il popolo di Israele si trova nel deserto, durante la fuga dall’Egitto, senza meta e senza guida in quanto Mosè non è ancora tornato (si è ritirato sul monte Sinai per ricevere le tavole della legge) .

Poniamo l’attenzione sul deserto, un luogo arido, senza vita, in cui non c’è niente.

Nel deserto quindi regna l’insicurezza, l’incertezza.

Sentendosi Israele insicuro e incerto, chiede ad Aronne “un dio che cammini alla nostra testa (che proceda davanti a noi – in altre traduzioni)”, in quanto gli eserciti orientali facevano precedere gli schieramenti dalla statua o dall'emblema di una divinità. 

Il Toro d’oro simboleggia la totalità dell’idolo: l’oro indica la ricchezza, mentre il toro è un animale simbolo di forza fisica, fecondità e sessualità, quindi anche affettività.

Israele costruisce il suo idolo e lo plasma come desidera.

Tutte queste caratteristiche racchiudono i vari idoli che l’uomo tende a farsi. 

L’idolo può essere da noi controllato proprio perché siamo noi stessi a crearlo: la nostra esistenza è equiparabile all’attraversamento di un deserto, una situazione di incertezza¸ proprio perché niente nella nostra vita è certo.

Nella nostra vita conviviamo con l’insicurezza.

Questo è il motivo principale per cui andiamo a ricercare la felicità e la sicurezza negli idoli. 

La prima parola ci avverte, in sostanza, sul pericolo di sbagliare dio.

L’idolo ci illude, ci promette la vita ma alla lunga ce ne priva, perché per inseguire un idolo siamo capaci di tralasciare tutto ciò che è veramente importante.

L’idolo risucchia la vita, illude e poi delude.

Le delusioni possono fare crescere, perché ci fanno capire che la nostra vita non si riduce alla semplice vita “da criceto”.

Qual è la vita del criceto?

Il criceto se ne vive tranquillo nella sua gabbietta, mangia, dorme, se ha una compagna si accoppia, corre sulla sua ruota. Niente di più.

 

E’ vivere o sopravvivere?

 

L’incertezza che attacca anche i nostri idoli ci fa capire che siamo chiamati a QUALCOSA DI PIU’ della "vita del criceto".

Oggigiorno domina il pensiero Darwinista, ossia il concetto di base per cui chi non si adatta all’ambiente non sopravvive.

Questa è una mentalità che pone come obiettivo della vita umana la conservazione della specie, e quindi mostrare debolezza o insicurezza è un segno negativo; attraverso le conquiste fatte dalla scienza e dal progresso gli uomini si sentono onnipotenti, e non si pensa di essere chiamati a Qualcosa di più.

Il Dio vero ti aiuta ad essere veramente libero, a differenza dell’idolo che schiavizza.

L’idolo fa sì che ci prostriamo, ci sacrifichiamo per lui, mettendo da parte le nostre idee, opinioni, i nostri cari…

Tutto può divenire un idolo: basta che questo diventi un pensiero ossessivo, una fissazione, un qualcosa che, anche senza rendercene conto, si va a collocare prima di qualsiasi altro nella nostra vita.

Ci sono persone dedite al lavoro (tipo coloro che una volta entrati in pensione si sentono persi).

Altri si lanciano nei rapporti affettivi, idealizzando la persona o la relazione, e pretendendo che quella persona soddisfi la loro richiesta di felicità in tutto e per tutto (improponibile perché gli altri sono persone come noi, soggette ad errori, stress, stanchezza, debolezze).

C’è chi ha come idolo la propria immagine, sia estetica  che d’integrità morale; altri si orientano verso la cultura, i genitori o i figli,  fino agli oggetti (auto, squadra del cuore, abiti, soldi, etc.).

Gli idoli possono anche rappresentare degli obiettivi da raggiungere, una condizione al quale ambire; ma gli obiettivi, una volta raggiunti, ci faranno star bene solo nel breve.

Prima o poi inizieremo di nuovo a sentirci insoddisfatti anche della nuova condizione raggiunta, trovando vari aspetti negativi, o che non ci piacciono e quindi che non ci soddisfano.

Come già detto non è assolutamente errato avere desideri o aspirazioni, a patto di non convincersi che solo ed esclusivamente tramite tali realtà potremmo raggiungere la pienezza della vita.

 

Perché se lo facciamo, le poniamo implicitamente al posto di Dio.

 

Se lo facciamo, ci attacchiamo a queste cose o persone come un cordone ombelicale da cui attingere vita. 

Nel rapporto di coppia, per esempio, oggi più che mai l’amore viene confuso con la condizione: “sto con te perché sto bene” …. E QUANDO NON SI STA BENE che si fa? Questa è un’idea immatura e fragile dell’amore, tinta di egoismo.

 

Guardiamo in faccia all'idolo, e ripristiniamo l'ordine reale delle cose: Dio in cima, e non il nostro io!

 



Perché è così difficile comunicare?

$
0
0

Genesi 11,1-9

 

1 Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. 2 Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. 3 Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. 4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». 5 Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. 6 Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. 7 Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro». 8 Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9 Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

-------------------------------------------------------------------

Babele viene da 'balal' che significa confondere: questa torre è il simbolo degli idoli che l'uomo si costruisce, del tutto ignaro di peggiorare soltanto la propria situazione.

Nel brano si parte da una situazione favorevole: tutta la terra aveva la stessa lingua e la stessa parola.

 

Gli uomini peró stanno emigrando dall'Oriente, allontanandosi dall'Eden, da Dio.

Pensiamo a riguardo alla parola 'disorientarsi', al modo di dire 'perdere l'orientamento': è come dire perdere il punto di riferimento.

 

Gli uomini, emigrando, si trasferiscono in pianura, e lì si stabiliscono: lì affondano le loro radici, cercando una situazione poco impegnativa, stabile, 'tranquilla' (perchè il disorientamento è comunque una situazione di sofferenza).

 

Dopo essersi stabiliti in pianura essi dicono: 'costruiamoci una torre, la cui cima tocchi il cielo'. Il cielo qui significa DIO.

Pertanto, se ad una prima lettura sembrerebbe quasi che questo popolo voglia fare una cosa buona per Dio, in realtà vuol costruire una torre per arrivare a Dio e prenderne il posto.

La torre simboleggia un sogno irragionevole: una torre sempre più alta, che vuol toccare il cielo, prima o poi crolla. E crolla su chi la costruisce.

 

Oltre a ció gli uomini dicono: "Facciamoci un nome!"

Il nome, per la cultura orientale in genere, è importantissimo: esso dà l'identità. Il nome dice CHI SEI veramente.

Gli uomini non sanno più chi sono, non hanno più uno scopo, vorrebbero crearsi una nuova identità.

Pensate al modo di dire 'farsi un nome' o 'diventare QUALCUNO': significano acquisire un ruolo nella società, per non essere un 'disperso'.

 

Farsi un idolo significa attribuire a qualcosa o qualcuno l'etichetta di Dio.

 

Spesso idealizziamo gli altri, e li amiamo solo quando essi soddisfano le nostre aspettative; cosí peró amiamo solo noi stessi.

 

E Dio come reagisce alla costruzione di questa torre?

 

Confonde le lingue; lo fa per riportare l'uomo sul cammino corretto verso Lui.

Noi facciamo già parte di un progetto, ABBIAMO GIÀ UN NOME. Siamo già qualcuno.

Dio confonde le lingue per non permettere all'uomo di realizzare un progetto deleterio, ossia di improntare la propria vita su un idolo.

Dio visita la colpa, ed i fatti accaduti sono una conseguenza; tutti coloro che vogliono costruire la torre hanno ciascuno il proprio modo di pensare, proprie idee, visioni, ideali, idoli. Ognuno vuol fare a modo suo, punto di partenza per le ambizioni e le lotte di potere.

Accade che non ci si capisce piú, non ci si comprende piú.

 

Torniamo cosí alla domanda iniziale: perchè non ci capiamo?

Perchè non ci riesce a metterci nei panni altrui?

 

Spesso tutto si riduce, in qualsiasi relazione, ad una LOTTA PER PRIMEGGIARE, perché  'le cose devono andare come dico io!'

E la conseguenza è la solitudine.

L'idolo promette di superare la solitudine, ma in fondo ti conduce ad una solitudine ancor piú profonda.

Così passa la voglia di vivere: questo è l’obiettivo dell'idolo.



QUALI TORRI STAI CERCANDO DI COSTRUIRE NELLA TUA VITA?

$
0
0

La domanda può essere riformulata così: quali sono gli idoli che stai inseguendo, costruendo, per trovare la pienezza nella tua vita? Quali sono quegli idoli per i quali stai sacrificando affetti, rapporti, tempo prezioso, etc.?

 

Dio, tramite l'alleanza stabilita nelle 10 Parole, dà all'uomo la VIA per la felicità in ogni situazione della vita.

10 Parole! Significa che Dio PARLA, non dà comandi.

Dio vuole entrare in relazione con noi.

 

Esaminando a ritroso la Bibbia, troviamo Adamo ed Eva che decisero di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male... da non confondere con l'albero della vita, anch’esso presente nella zona centrale del giardino (Gen 2,9).

Il frutto peró cui Dio aveva detto di non mangiare era il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male.

 

Nel linguaggio biblico CONOSCERE vuol dire POSSEDERE.

Quindi l'uomo decidendo di mangiare quel frutto, decide di POSSERE il bene e il male, ovvero decide di stabilire da solo cosa sia bene e cosa sia male: non lo lascia più decidere a Dio.

La parola OBBEDIRE viene da latino OB+AUDIRE, che significa ascoltare dinanzi, ascoltare stando di fronte; prestare ascolto.

Prestare ascolto a qualcuno è un atto di fiducia.

La cultura occidentale è invece pervasa dal falso concetto di obbedienza intesa come passivo azzeramento della propria volontà, mentre l’atto di OBBEDIRE non ha alcuna attinenza, neppure alla lontana, col supino atteggiamento rinunciatario. Chi obbedisce non si abbassa all'umiliante ruolo dell'automa, non annulla la propria libertà, ma mette in moto i meccanismi più profondi dell'ascolto e del dialogo.

La nostra vita, anche se non ce ne rendiamo conto, è piena di atti di fiducia: dalle notizie che apprendiamo, ai dati, alle persone, alle informazioni di cui ci fidiamo; tante cose le prendiamo per vere non perchè le abbiamo verificate, ma perchè le abbiamo ascoltate.

La nostra vita è piena di atti di fiducia.

 

Abbiamo detto quindi che Dio ci parla, non impartisce ordini: Dio ci lascia liberi di ascoltarlo. Ma Dio non vuole che ci perdiamo, che entriamo in quei meccanismi, quei circoli viziosi, che ci fanno tornare a fare continuamente gli stessi errori, il pensare erroneamente 'la vita è una ruota che gira', luogo comune che ci mantiene ancorati alla stessa vita da criceto e agli stessi errori.

 

Dio ci dice: "Io sono il Signore tuo Dio": non lo abbiamo mai visto, ma lo abbiamo conosciuto per ciò che ha fatto.

 

Se non conosciamo Dio come possiamo fidarci di Lui?

 

"Non ti farai idolo" significa: Non sbagliare Dio!

Dio è COLUI che ha la pienezza della vita, perché ne è la fonte!



LA SECONDA PAROLA

$
0
0

Esodo 20,7

 

Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.

--------------------------------------------------------                       

 

COSA SIGNIFICA NON PRONUNCIARE IL NOME DI DIO INVANO?

 

A causa della polisemia della lingua ebraica, il verbo PRONUNCIARE assume diversi significati come PORTARE, CARICARSI DI.

La seconda parola (terza per gli ebrei), ci dice: NON portare, non CARICARTI DEL NOME DI DIO INVANO.

 

Ciò ci porta ad una riflessione un po’ più approfondita rispetto al significato che tutti diamo in primis a questa Parola, fin da piccini al catechismo della Prima Comunione: non vuol dire solo non bestemmiare, ma ci indica qualcosa che va oltre.

 

Già la parola INVANO ci ricorda ‘vano, vanità’ e in ebraico tale vocabolo indica il vapore che esce dalla bocca quando è freddo; qualcosa di inconsistente, qualcosa che appare un attimo e poi svanisce, privo di significato.

 

Nella Bibbia, e nelle culture orientali in generale, il nome è qualcosa di molto importante, in quanto indica l’identità stessa della persona.

Il nome non è solo un appellativo, ma indica la Persona stessa.

Pronunciare il nome di qualcuno, pertanto, indica entrare in relazione con lui.

La seconda parola ci dice proprio questo: non avere una relazione vana con Dio, ma autentica; non relazionarsi a Lui in modo ipocrita, strumentale, orientato a difendere il proprio personale interesse, non costruire un rapporto con Dio immaturo ed egoista.

 

Ci sono relazioni reali, autentiche; altre invece sono false e ipocrite (da CRIPTO= nascondere): queste relazioni sono fatte da un DARE PER RICEVERE, costruite su un rapporto utilitaristico.

Purtroppo molto spesso gli uomini vivono quest’ultimo tipo di relazione con gli altri, pur non rendendosene conto.

Una relazione è autentica quando ci si mette in gioco, e si è disposti a farlo perché quella persona per noi è preziosa; basta pensare al detto “l’amico si riconosce nel momento del bisogno”. Accade invece che le relazioni siano ipocrite: sovente le persone stanno insieme ad altre perché possono servire, sono utili in qualche modo.

Anche con Dio si può non avere una relazione autentica, anzi: è proprio nel riuscire a capire se le nostre relazioni col prossimo sono autentiche che riscontriamo l’autenticità della nostra relazione con Dio.

 

Egli, con la Sua parola, ci dice quindi che non accetta relazioni di basso livello: paradossalmente sarebbe meglio non prendersi affatto carico del nome di Dio, perché in tal caso sarà solo il nostro Dio a soffrire della lontananza... mentre in un rapporto ipocrita, oltre a Dio c’è anche la nostra felicità che viene meno.



Viewing all 92 articles
Browse latest View live